Marta si trovava nel camerino di un attore molto conosciuto, per comunicargli come da prassi informazioni relative alle sue prossime pose, quando «si è avvicinato e ha provato a baciarmi», racconta, «mi sono divincolata e sono uscita di fretta dalla stanza. Ma, una volta segnalato alle produttrici, mi sono sentita rispondere semplicemente che sarebbe stato meglio, da quel momento in poi, non interfacciarmi più con lui da sola, ma sempre in presenza di un altro uomo, far finta di nulla e ignorare il tutto come se fosse il capriccio di un attore. In un’altra occasione, sempre sul set, mi ha stretto ai fianchi tirandomi contro il suo corpo».

Marta, nome di fantasia, lavora in regia e, come spesso accade nel settore, ha contratti a progetto e a chiamata. Per questo, come le altre persone che hanno raccontato la loro esperienza a Domani, ha preferito rimanere anonima.

Sui set cinematografici sono comportamenti spesso normalizzati, al punto da non essere riconosciuti da chi riveste ruoli di responsabilità e ha l’obbligo di assicurare un ambiente di lavoro sano. La mancanza di consapevolezza collettiva e di tutele effettive porta a chiedersi: «Cosa fa di una molestia una molestia? Sto capendo bene?» fa notare Luca, nome di fantasia, che lavora in produzione e, a seguito delle condotte moleste subite da una superiore, ha sviluppato disturbi di ansia.

Non ha mai pensato di denunciare, ha deciso di «fare da sé» e bloccare quella persona, che lo cercava in modo insistente anche al di fuori dell’orario di lavoro, con inviti fuori luogo nonostante il suo rifiuto fosse chiaro. Questo ha significato però la chiusura di un possibile futuro rapporto di lavoro con quella struttura.

La narrazione prevalente porta le persone che subiscono questi comportamenti a colpevolizzarsi. È frequente che uomini con grande potere sminuiscano le denunce, come ha fatto Luca Barbareschi, regista e produttore, parlando di «molestate finte», delegittimando le testimonianze raccolte da Amleta - collettivo di attrici nato per contrastare la violenza di genere nel settore - e puntando il dito sulla vittima, non sull’aggressore.

Le tutele processuali

Amleta sta sostenendo in tribunale con l’associazione Differenza Donna - che gestisce centri antiviolenza - chi ha segnalato di aver subito abusi. Ma non tutte hanno voluto e potuto agire in sede penale, perché in caso di violenza sessuale si ha un anno di tempo per presentare querela. Esiste però un doppio binario di tutela: si può, da un lato, denunciare l’autore degli abusi e attivare il processo penale, dall’altro, agire in sede civilistica contro il datore di lavoro per il risarcimento del danno.

Il datore è responsabile della salute e della sicurezza di lavoratrici e lavoratori, deve tutelare la loro «integrità fisica e personalità morale» e, se viene a conoscenza di abusi, ha il dovere di ordinare l’interruzione delle discriminazioni, oltre alla rimozione degli effetti connessi a queste condotte.

L’articolo 26 del Codice delle pari opportunità prevede infatti l’annullamento di atti e provvedimenti, all’interno del rapporto di lavoro, se sono stati adottati a seguito «del rifiuto e della sottomissione» a molestie. Ma, secondo l’Ufficio per l’Italia dell’Organizzazione internazionale del lavoro, l’attuazione di questa tutela è lasciata in buona parte alla contrattazione collettiva e, più in generale, «la denuncia di molestie sessuali e violenze di genere sul lavoro è piuttosto limitata in Italia, a causa del timore di ritorsioni che possono implicare anche la perdita del lavoro».

Ma è l’azienda stessa ad avere «un interesse principale e diretto a che queste situazioni vengano prevenute», ha spiegato l’avvocato Mario Fusani - consulente di Anica, associazione di categoria - in un incontro sul tema, precisando che soprattutto nell’ambito creativo la condizione psicofisica ha conseguenze anche sul lavoro finale.

Una (non) cultura

Nel 2018, un anno dopo il MeToo, viene fondata la sezione italiana di Women in Film, Television and Media (Wiftmi), associazione no profit che promuove la parità di genere e incentiva un cambiamento culturale nella rappresentazione delle donne nel mondo dell’audiovisivo, attiva negli Stati Uniti dagli anni ‘70.

«Le molestie e le violenze sono l’apice di contesti in cui sono accettati e promossi comportamenti abusanti», dice Domizia De Rosa, presidente di Wiftmi. «Sono la manifestazione di una tossicità», spiega, «e di una non cultura del luogo di lavoro, che riproduce una non cultura dei rapporti interpersonali».

Quindi, aggiunge De Rosa, il linguaggio, che nei confronti delle donne ha sempre una declinazione sessuale, è il punto di partenza, la parte sommersa nell’immagine dell’iceberg che descrive la violenza di genere: «Si inizia da queste parole: “era solo una battuta”». Per la presidente di Wiftmi, se le aziende decidono di nascondere o ignorare quello che avviene al proprio interno, quel clima influenzerà la quotidianità lavorativa e avrà effetti negativi sulle singole persone e sull’impresa.

Un codice etico

Il mondo dell’audiovisivo italiano è una realtà frammentata, fatta di piccole e grandi produzioni, e la riflessione su questi temi dipende dalle singole sensibilità.

«Come associazione abbiamo creato un codice etico adottabile da tutte le realtà», spiega la presidente di Wiftmi. Un documento che aiuta a definire i comportamenti abusanti, fornisce indicazioni alle aziende, tra cui l’introduzione di un referente interno, preferibilmente di genere femminile, che non abbia il potere di assumere e licenziare, a cui rivolgersi per avere informazioni o riportare un caso. La referente concorda con la persona coinvolta le azioni opportune, ed è prevista l’istituzione di un servizio di ascolto, con una mail dedicata. De Rosa sottolinea però che «qualsiasi documento è lettera morta se i principi non informano il comportamento quotidiano delle persone».

La carta si rivolge anche alle scuole di cinema, per creare un clima di lavoro sano a partire dai luoghi di formazione, ma anche per intervenire sulle persone che entreranno nel settore, perché «dal racconto di Amleta» prosegue «è emerso che spesso i comportamenti abusanti sono normalizzati a partire dalle scuole, che in alcuni casi diventano luoghi di formazione dei predatori. Alcune, come il Centro Sperimentale, l’Anica Academy e la Naba, hanno già adottato il codice etico».

L'associazione di imprenditori 

Dopo la pubblicazione della seconda puntata di questa inchiesta, Agis - associazione che rappresenta gli imprenditori del settore, che tra i soci ha Federvivo, federazione per lo spettacolo dal vivo - ha contattato l'associazione Amleta per proporre un'interlocuzione e ha chiesto a Domani di riportare alcune misure adottate negli ultimi anni: l'introduzione di un codice etico nel 2021 che tra i principi inserisce «il rispetto della persona e pari opportunità» e la firma nel 2019 di un protocollo contro le molestie e le violenze nei luoghi di lavoro.

«Qualora si venisse a conoscenza di un eventuale mancato rispetto» dei documenti, spiega Agis, «si procede con il deferimento al collegio dei probiviri e con la eventuale decadenza da socio». L'associazione riferisce inoltre che il presidente Francesco Giambrone in seguito alle prime segnalazioni di Amleta ha inviato una lettera a tutti i soci in cui ha sollecitato al rigoroso rispetto del codice. 

Gli strumenti sono efficaci?

Per i lavoratori del settore, i gruppi internazionali sembrano avere un’attenzione in più ma in Italia, complice l’assenza di obblighi e contratti collettivi aggiornati, gli strumenti di contrasto risultano spesso inefficaci. Sara lavora in produzione e racconta che l’unica formazione che ha seguito era in una serie Netflix, un corso online, «talmente superficiale, che a un certo punto ho fatto quello che fanno tutti, metterlo in background nel computer».

Le produzioni internazionali appaltano a case di produzione italiane, che non sembrano assicurare le tutele degli Stati Uniti.

In altri casi invece, continua Sara, sono presenti, nell’ordine del giorno, contatti a cui rivolgersi in caso di problemi sul set. Spesso però sono persone mai viste e alcune di loro non si trovano nemmeno in Italia: «In una produzione Wildside avevamo due indirizzi email a cui potevamo scrivere, se testimoni o vittime di un comportamento inappropriato, ma credo che la maggioranza delle persone preferirebbe andare da una persona di fiducia», precisa, «con la speranza che gestisca il problema con discrezione». Per la lavoratrice sarebbe di gran lunga più efficace formare le persone con responsabilità e potere: direttori di produzione, organizzatori, capireparto.

La casa di produzione italiana Wildside, così come The Apartment, è di proprietà della britannica Fremantle, che detiene anche il 70 per cento di Luxvide. Fremantle risponde a Domani che ha adottato una policy «a tolleranza zero» su molestie e bullismo applicabile a tutte le persone con cui lavora, ma si tratta di un documento interno che non può essere divulgato. Spiega che da tempo è attiva una piattaforma per accogliere segnalazioni anonime, aperta a dipendenti e freelance, ma la cui gestione è in capo a una società partner, e non è in grado di fornire il numero di segnalazioni, né dettagli su come vengano concretamente attuate queste politiche in Italia.

Anche Panorama, che gestisce la produzione esecutiva in Italia di film e serie tv estere, ha adottato un codice di condotta contro discriminazioni, molestie sessuali e bullismo, che viene allegato ai contratti. «Siamo tenuti a farlo perché lavoriamo con produzioni estere, ma lo facciamo anche perché c’è una certa sensibilità interna», spiega Marco Valerio Pugini, Ceo di Panorama. «Le policy servono», prosegue, «ma le parole restano tali se non si cambia la cultura. Tutte le persone che lavorano con noi hanno i nostri contatti personali e le produzioni con cui lavoriamo hanno linee anonime per le segnalazioni. A me non sono mai arrivate segnalazioni di molestie, ma se mi si chiede se è mai successo qualcosa su uno dei nostri film non potrei dirlo al 100 per cento».

Una figura ancora poco diffusa in Italia è la diversity coordinator, che oltre a monitorare la parità di genere, l’accessibilità degli spazi, la rappresentazione non stereotipata, ha un ruolo di sensibilizzazione e si pone come referente per ricevere segnalazioni.

Se è vero che anche in Italia questi strumenti iniziano a diffondersi, secondo le testimonianze di chi lavora nel settore appaiono ancora poco presenti, per nulla conosciuti e non sufficienti per cambiare un contesto culturale ancora fortemente sessista.

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