Io e Michele Bravi ci eravamo sentiti l’ultima volta un anno fa, a pochi giorni dalla sua esclusione da Sanremo seguita dall’impetuoso successo di Mantieni il bacio, che poi era proprio la canzone esclusa dal Festival. Era in una fase di elaborazione del dolore, mi aveva detto: «Parlo da vinto, non c’è più nulla che possa farmi male, a parte l’indelicatezza». Dodici mesi dopo Michele è a Sanremo con Inverno dei fiori, una canzone intima e delicata che parla di scambio, umanità e del poter fiorire anche nella stagione più difficile.

Michele, come stai vivendo questo Sanremo?

In camera. Per via del Covid vivo tutto il tempo rinchiuso, pranzo e ceno qui, esco solo per fare le prove e per la diretta. C’è tanto lavoro dietro Sanremo, sono in una bolla dall’annuncio della mia partecipazione, un mese e mezzo fa. Basta un attimo per buttare via tutto il lavoro fatto per arrivare fin qui, e non solo mio.

Sarà dura.

Non sono mondano, ma scendere sotto casa per un caffè un po’ mi manca.

Dall’esclusione di Saremo l’anno scorso a questo Sanremo quante cose sono accadute nel mezzo?

Tante. Il periodo della pandemia mi ha permesso di fare un cambio di registro. Nel mio primo Sanremo vivevo il tutto in modo carnale, della serie: se questo Sanremo va male la mia vita è finita, se funziona sarò felice. Ora tutto questo ascendente sulla mia vita Sanremo non lo ha. È un’occasione professionale per me e la mia squadra, ci sono 30-40 persone che lavorano con me, dieci in presenza qui. Però da Sanremo non dipende la mia vita.

Quello che conta è che siamo qui a riprenderci la nostra dignità professionale, a riprenderci dello spazio in un momento in cui la cultura è stata messa da parte, ritenuta sacrificabile.

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Come ti spieghi questo record di ascolti? La gente dovrebbe avere voglia di uscire…

Dopo la seconda guerra mondiale c’è stato un boom artistico. Le comunità, quando arrivano da un momento storicamente difficile, hanno bisogno di immergersi nella cultura, nella visione creativa di qualcuno. È una sorta di apprendimento inconsapevole, una lezione senza libri.

Come nasce  la tua canzone Inverno di fiori?

Per me la musica è un gesto sottile per cambiare il mondo e sono andato in quella direzione, quella della ricerca della gentilezza, del cercare la chiave per entrare nell’emotività dell’altro, dopo tanta solitudine di questi anni di pandemia. La vita di prima non esiste più, è inutile la nostalgia del passato così come, oggi, la costruzione del futuro, ora è il tempo di intrecciarsi con la vita delle persone.

E quindi di rifiorire, anche se è ancora inverno.

Conosci la storia del Calicanto, un arbusto con un fiore profumatissimo? C’era questo pettirosso che cercava un riparo per l’inverno e tutti lo cacciavano finché un calicanto, spoglio nella stagione fredda, gli dice «vieni da me». Questa gentilezza fa cadere una pioggia di stelle che si trasformano in fiori, e da qui nasce la leggenda sul perché il calicanto fiorisca di inverno. Un gesto di gentilezza può far rifiorire.

Qualcosa che hai imparato nella solitudine?

La perdita di pudore. Ieri Drusilla ha fatto un bellissimo discorso sull’accettare anche le cose che non ci piacciono di noi. Io ora non ho più pudore, ma non parlo di quella cosa banale che è il dire «ora mi mostro nudo al pubblico». No, io ho la mia maschera nello spettacolo e la indosso. Significa che non ho più paura di indossarla con tutti i mezzi che possiedo per portarla al meglio. Di sfruttare gli elementi del mio corpo che prima cercavo di limitare.

Tipo?

Per me l’argomento del corpo è un tema fortissimo. Io ho una dismorfofobia importante. Non riesco a calibrare l’idea che ho del mio corpo con la persona che appare agli altri.

Come ti vedi?

Mi vedo sempre sbagliato. Ho una percezione strana del mio peso e delle mie forme. Ho un passato da obeso, ora mi dicono tutti che sono troppo magro, mi sento addosso il giudizio contrario. Quando lavori nello spettacolo il corpo è spesso nelle mani degli altri, in questo periodo per dire faccio ore di fitting, mi ritrovo spesso mezzo nudo con molti sarti che mi cuciono gli abiti addosso. Però ho imparato a non essere paranoico.

Tutto questo ti condizionava nella professione?

Sì. Nel passato ho cantato tante volte con una postura che dipendeva dal pensiero costante sul mio corpo.

Ti senti banalmente più sicuro.

Ora sono a Sanremo con una professionalità diversa, “mi sto usando”, se mi passi questa espressione, per cercare di dare al pubblico un’esperienza immersiva. Voglio che il mio corpo e il mio cantare siano il veicolo per far fare agli altri un’esperienza creativa. Lo so, sembro un po’ esaltato, ma per me questa è una missione. E quindi mi sono spogliato dell’aspetto auto-giudicante.

A Sanremo il giudizio però è il sale.

Infatti galleggio in questa contraddizione: odio il giudizio ma poi ci vivo immerso, facendo questo lavoro. Sanremo poi è una competizione. E io cerco di affrontarla con senso di responsabilità massimo.

In che modo?

Fare questo lavoro con superficialità è pericoloso. Io sto attento a tutto. Se una canzone dice una cosa sbagliata è come se silenziosamente mettessi nella testa delle persone una piccola dose di veleno, e questa ipotesi è spaventosa. Se io posso somministrare qualcosa con la mia musica, voglio che gli ingredienti siano giusti.

Che tu vinca o no che aspettative hai?

Riempire i teatri.

Hai un numero impressionante di sostenitori, leggi cosa scrivono di te sui social?

Dopo l’esibizione per un’ora il telefono esplode, non si riesce neppure a capire cosa succede. Allora ho un metodo infallibile, chiedo a mia madre. I suoi feedback vanno da «Che bello, ieri sera hai cantato con gli occhi» a «Ma perché sei sempre così triste?» o anche «Come sei pesante»!

Non hai i genitori di Djokovic, insomma.

No, però mia madre ha preso una settimana di ferie perché era tesa per me per via di Sanremo.

Insomma, è più tesa lei di te.

Ho solo una distensione diversa rispetto al passato. La mia vita è cambiata, il mio sistema valoriale è cambiato. Ora so che la musica non salva nessuno, aiuta a decodificare quello che ti accade, ma poi ti devi salvare da solo. Per questo dico che Sanremo è importante ma le cose più importanti sono parlare sul divano grigio della mia casa, avere la certezza che un amico mi porterà la cena quando non posso cucinare. Quando ho questo, tutto il resto scompare.

LaPresse

Hai un look stratosferico quest’anno.

Mi stupisco ogni tanto di domande tipo: non hai paura che il look distolga dalla canzone? Ma lo spettacolo è composto da tanti elementi, dai vestiti alla regia!

Mi veste Fausto Puglisi, che è un mito da sempre. Ha lavorato con celebrità internazionali, io lo stimavo tantissimo e continuavo a mettergli cuori su Instagram sperando che prima o poi mi filasse. Quando è uscito l’annuncio della mia partecipazione a Sanremo mi ha scritto lui!

Manco Jlo avrà chiamato lui…

Tu ci scherzi ma nella loro agendina, quella su cui annotano i nomi delle celebrità che vestono, io ho chiesto che Bravi sia accanto a Beyonce.

Ti fai tenerezza guardandoti nelle tue foto, giovanissimo, del primo Sanremo?

Sì, ero spaventato. Ma avevo l’immagine giusta, ingenua, che mi apparteneva. Non avrei potuto sostenere tante cose, ai tempi, non avevo la struttura. Ricordo che mi dicevo “speriamo che vada bene” come se il successo fosse un caso, non il risultato di lavoro e preparazione.

Ieri hai detto una cosa gentile a Drusilla.

Io e lei ci conosciamo da anni, sono un grande fan del suo mondo teatrale. Quando ci siamo salutati dietro le quinte ho pensato: che bella cosa vedere una persona così preparata qui. La dovevo dire, non ho potuto resistere.

Zalone l’hai visto?

Non sono riuscito a vederlo. Poi sono una persona drammatica, la sua cifra comica non è il mio mondo.

Non hai recuperato neppure “Poco ricco”?

Non ho mai visto un suo film.

Non è un film, era una sua gag a Sanremo. Allora è vero che non lo conosci!

Devo vincere il mio pregiudizio, so che racconta l’estremo per dire il contrario, vedrò un suo film.

La tua canzone preferita?

Chimica! Rettore e Ditonellapiaga tirano fuori il graffio pop che è quello che vorrei cantare, se avessi la personalità giusta.

FantaSanremo ti ha preso di brutto.

Forse ho esagerato. Mi sono fatto un’analisi emotiva anche di questo fenomeno, io soffro da morire la competizione, fatico col concetto di gara. Fantasanremo mi aiuta a sdrammatizzare e crea aggregazione con altri concorrenti, ora ci scriviamo per chiedere “oh,quanti punti hai fatto?”, c’è meno tensione.

Hai pensato di fare qualcosa di estremo sul palco per prendere punti?

Ieri sera ero nudo sotto la giacca. Ho detto: la apro e faccio vedere la scapezzolata. Poi ho desistito.

Un po’ di pudore allora c’è ancora.

Si chiama dignità.

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