La politica migratoria ai nostri confini oscilla tra «riammissioni informali» e chiusure reali. Un pendolo che tocca le due frontiere: quella all’estremo nord, e l’altra al sud, quella insulare, dove l’Africa è più vicina dell’Italia. Friuli Venezia-Giulia e Lampedusa, la rotta balcanica e quella africana, due porte per l’accesso in Europa.

Quando una sembra chiudersi, l’altra si apre, ma con un identico denominatore comune: l’ambiguità dei governi italiani e delle istituzioni europee nell’affrontare il fenomeno con politiche rispettose dei diritti dei migranti.

Accade soprattutto al confine nordest, in Friuli, punto di arrivo di migliaia di persone che decidono di intraprendere il loro “cammino della speranza” attraversando la rotta balcanica. Un percorso scelto da più di 900mila persone negli ultimi sei anni. Turchia, Grecia, Macedonia, Albania, Serbia, Bosnia, Croazia, Slovenia, un cammino lunghissimo prima di arrivare in Italia e nei paesi dell’area Schengen. Una Via crucis degli anni Duemila, lastricata di violenze e abusi. Una linea di confine dove diritto internazionale e trattati vengono cancellati nell’indifferenza di tutti.

«Da maggio 2020 abbiamo notato un aumento delle violenze compiute durante i respingimenti in Croazia, ma abbiamo anche iniziato a parlare con persone che erano state respinte dall’Italia... È stato solo quest’anno, durante la pandemia, che abbiamo iniziato a raccogliere un numero consistente di casi. Che è continuato per tutto l’anno e sta continuando tuttora».

È la testimonianza di Simon Campbell, portavoce di Border Violence Monitoring Network, contenuta nel Rapporto sulla rotta balcanica del laboratorio politiche migratorie.

Le testimonianze

Nelle interviste raccolte da un team di ricercatori sul campo, i migranti raccontano «di essere stati rintracciati, fermati (anche a diversi chilometri dalla frontiera) e portati all’interno di strutture temporanee (tende militari) sul confine, dove tutti vengono divisi per nazionalità e sottoposti a procedure per l’identificazione. A tutte le persone viene sistematicamente negata la possibilità di richiedere asilo e, anche a seguito di specifiche richieste, non viene fornita assistenza legale né la presenza di un interprete».

«Quando ti espellono, ti fanno firmare questo documento, così da poter dire che accetti. E, naturalmente, lo firmi, chi si preoccupa di te? Ti dicono di firmare, e tu firmi, perché non hai potere, e non c’è nessuno che ti ascolta», secondo una testimonianza presente nel rapporto.

«Numerose associazioni operanti in Bosnia-Erzegovina hanno affermato che la quasi totalità delle persone riammesse in Slovenia ha fatto rientro forzato in Bosnia-Erzegovina, vedendosi di fatto negato il diritto di fare richiesta d’asilo e ricevendo lungo l’intero percorso trattamenti violenti e degradanti», scrivono i ricercatori Elia Lotti, Chiara Martini, e Melissa Visintin.

«Al confine italo-sloveno – dice Gianfranco Schiavone, giurista e presidente del Consorzio italiano di solidarietà – la norma più violata è il regolamento di Dublino. Lo abbiamo criticato anche aspramente, ne abbiamo evidenziato i limiti, ma oggi sembra un baluardo di umanità. La persona respinta ai confini scompare nel nulla, sparisce, dentro una realtà fatta di violenze efferate. La verità è amara per l’Italia: se in Libia, attraverso gli accordi con il governo, e chiudendo più di un occhio sulle condizioni dei migranti nei centri di detenzione, abbiamo esternalizzato la violenza, qui la esercitiamo direttamente».

I numeri

Ma quanti sono i migranti respinti alla frontiera italo-slovena? Difficile avere un quadro statistico preciso, lo stesso “cruscotto” del Viminale (il conteggio degli sbarchi giorno per giorno) non fornisce dati e statistiche sulla rotta balcanica. Ci affidiamo ai numeri forniti da ricercatori indipendenti e dalle associazioni umanitarie. «Tra il primo gennaio e il 15 novembre 2020 sono state riammesse 1.240 persone sul confine italo-sloveno, un incremento del 423 per cento rispetto all’anno 2019. Nel primo semestre le riammissioni attive a Gorizia e Trieste risultavano essere 1.754, nel secondo semestre (dati fino a metà novembre 2020) il numero è salito a 2.294».

Un “pugno di ferro” che le autorità governative italiane giustificano con l’emergenza della pandemia, e con l’esistenza di un accordo bilaterale Italia-Slovenia firmato nel 1996.

«Un accordo – commenta Schiavone – di assai dubbia legittimità in quanto, nonostante abbia una chiara natura politica, non è mai stato ratificato dal parlamento con legge di autorizzazione alla ratifica ai sensi dell’articolo 80 della Costituzione». Le “riammissioni informali” sono state l’oggetto di una interrogazione parlamentare presentata il 14 luglio di un anno fa dal deputato Riccardo Magi nella quale si evidenzia come i profughi respinti dall’Italia siano poi «riammessi dalla Slovenia in Croazia, e da qui spesso dopo inaudite violenze della polizia, riammessi in Serbia o in Bosnia, in condizione di abbandono materiale e morale», pratiche che sono in palese violazione degli accordi sui rifugiati e i richiedenti asilo.

Clamorosa è l’ordinanza del tribunale di Roma del gennaio scorso (sezione diritti alla persona e immigrazione), che accoglie il ricorso di un cittadino pakistano arrivato attraverso la rotta balcanica a Trieste e respinto dalla polizia.

Ad assisterlo gli avvocati Anna Brambilla e Caterina Bove, dell’Associazione studi giuridici sull’immigrazione. Il suo è un racconto drammatico.

«Ero con un gruppo di altri profughi, a Trieste siamo stati portati da agenti in borghese in una stazione di polizia, qui ci hanno fatto firmare delle carte scritte in italiano, poi ci hanno sequestrato i cellulari e ci hanno ammanettato. Siamo stati caricati su un furgone e portati su una collina poco distante dal confine con la Slovenia».

E lì «ci hanno intimato sotto la minaccia di bastoni, di correre» oltre la frontiera con la Slovenia.

Dopo pochi chilometri gli spari e l’arresto da parte della polizia slovena, il trasferimento in Croazia e poi in Bosnia, sempre segnato da maltrattamenti e torture. «Lo stato italiano non avrebbe dovuto dare corso ai respingimenti informali in mancanza di garanzie sull’effettivo trattamento che gli stranieri avrebbero ricevuto negli altri paesi – si legge nell’ordinanza emessa dal giudice Silvia Albano – primi fra tutti il diritto a non subire trattamenti inumani e degradanti e quello di proporre domanda di protezione internazionale».

L’altro confine

Lampedusa, confine sud sull’Africa. Qui, grazie alla pandemia, si è realizzato il “sogno” di Matteo Salvini e Angelino Alfano: la creazione di hotspot galleggianti dove rinchiudere i migranti sbarcati a Lampedusa e sulle coste siciliane.

Se nel 2015 il leader della Lega proponeva l’utilizzo di piattaforme petrolifere dismesse, un anno dopo l’allora ministro dell’Interno, Angelino Alfano, rilanciò puntando sull’utilizzo di navi.

«Questo sistema – disse sicuro di sé – consentirà di fare le operazioni di identificazione direttamente a bordo, senza far fuggire nessuno».

La pandemia ha imposto le navi quarantena. Cinque, tutte di compagnia di navigazione private, e tutte in Sicilia.

Sami Aidoudi e Annapaola Ammirati illustrano i risultati di una ricerca condotta dall’Asgi con il progetto “Inlimite”.

Le condizioni materiali sulle navi-quarantena sono preoccupanti, lo dimostrano le interviste fatte ai migranti e allo stesso personale della Croce rossa.

Si parla assistenza medica «inadeguata», di ospiti costretti a consumare i pasti nelle cabine. Piccole e con due soli posti. Tra i punti più critici di «questo nuovo modello emergenziale», si legge nel rapporto, ci sono «gli ostacoli all’accesso a un’informazione piena sulla propria condizione giuridica e alle procedure di asilo».

«Operiamo a Lampedusa dove da sempre abbiamo difficoltà di accesso all’hotspot», dice Sami Aidoudi, attivista e mediatore culturale, «nonostante questo, riusciamo a entrare in contatto con i richiedenti asilo per offrirgli assistenza legale. Con le navi quarantena tutto è più difficile, ci dobbiamo affidare al passaparola sul numero di telefono che mettiamo a disposizione dei migranti per informarli». Succede ai nostri confini, di terra e di mare.

Salvini sembra relegato al passato, la sua “ideologia” di una Italia chiusa e indifferente no. Resiste ancora.

 

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