È la notte del 16 settembre 2016. Giacomo Campo è un ragazzo di 25 anni che sta riposando nella sua casa di Roccaforzata, un piccolo comune della provincia di Taranto. Il telefono squilla, all’Ilva c’è una urgenza e così alle 4 del mattino l’operaio si alza e si veste per andare al lavoro, per svolgere un nuovo turno come addetto alle pulizie industriali. Il suo compito è quello di rimuovere la polvere prodotta dalla dispersione del minerale, è assunto da una azienda subappaltatrice dell’indotto della fabbrica siderurgica, la Steel Service.

Qualche ora dopo, alle 8.00 del mattino, Giacomo Campo è a terra esanime, il corpo schiacciato tra il nastro trasportatore e il rullo compressore. A soccorrerlo per primo è lo zio, Romeo Cappello, operaio pure lui, che oggi non si dà pace e cerca giustizia. Quando qualche giorno dopo nella piccola comunità del tarantino si svolgeranno i funerali, a poche case di distanza dalla abitazione in cui anche io sono nato e cresciuto, centinaia di ragazzi e ragazze, gli amici e le amiche di Giacomo, indossano tutti una maglietta bianca, simbolo di innocenza. È una giornata che segnerà per sempre il rapporto di quei giovani con la fabbrica, che per i loro padri e i loro nonni, cioè per i “metalmezzadri”, come li aveva definiti nel 1979 Walter Tobagi, invece, era stato una sorta di mito di «progresso lanciato sopra i continenti», per dirla con Guccini.

Sabotaggio o depistaggio?

Da qualche giorno si è scoperto, invece, grazie a una inchiesta dei magistrati della procura di Potenza, che negli stessi momenti in cui amici e familiari dell’operaio erano distrutti dal dolore, il capo dei magistrati della procura di Taranto, Carlo Maria Capristo, ora raggiunto da un provvedimento di obbligo di dimora, accusato di corruzione in atti giudiziari, «sollecitava i suoi Sostituti a provvedere con massima sollecitudine al dissequestro dell’AFO 4, l’altoforno 4 che poi avveniva in 48 ore, peraltro sulla base dell’impostazione difensiva dell’Ilva, rilevatasi infondata».

Così ricostruiscono quegli istanti i giudici di Potenza nell’ordinanza di custodia cautelare che ha colpito lo scorso 8 giugno, tra gli altri, l’avvocato consulente di Eni e Ilva, Piero Amara, il poliziotto già in servizio al Viminale, Filippo Paradiso, il consulente di Ilva in amministrazione straordinaria, il top manager legato ad Ilva, Nicola Nicoletti, e lo stesso Carlo Maria Capristo, indagine di cui Domani ha dato ampiamente conto nei giorni scorsi.

Secondo l’accusa, in sostanza, Capristo avrebbe asservito la sua posizione agli interessi della grande fabbrica siderurgica. Nello specifico, riguardo alla morte di Giacomo Campo, l’allora capo dei magistrati tarantini avrebbe «gestito, subito dopo l’incidente, i rapporti con la stampa in modo da fare intendere, sia pure implicitamente ma univocamente, che i dirigenti di Ilva in amministrazione straordinaria potessero essere stati vittime di una attività di sabotaggio in loro danno». A supporto della tesi accusatoria, nell’ordinanza sono riportate alcune testimonianze. Quella di Giovanna Cannarile, pubblico ministero attualmente in forza alla Direzione Antimafia di Lecce, è una di queste.

Cannarile, sentita dalla procura di Potenza come persona informata sui fatti, ha confermato che soltanto due giorni fa dopo la morte di Campo, il 19 settembre del 2016, fu possibile restituire all’Ilva l’impianto «allorquando il professor Sorti (consulente tecnico nominato da Capristo, su interessamento dell’avvocato Amara, come emerge dall’indagine, ndr) mise per iscritto che aveva completato il sopralluogo e non aveva necessità di fare altri rilievi».

Non solo. La stessa magistrata ha precisato che «a livello investigativo e processuale non si è mai parlato di sabotaggio dell’impianto né si è presa in considerazione questa ipotesi, priva di ogni riscontro, con riferimento al taglio del nastro trasportatore». Ma che anzi, ha riferito ancora Cannarile: «Ho ritenuto più che fondata e pacifica, fin dall’inizio delle indagini, l’ipotesi che vedeva coinvolti a livello di responsabilità per la morte di Campo, non solo i dirigenti dell’azienda Steel Service, per cui lavorava la vittima, ma anche dei dirigenti di Ilva, in quanto avevano omesso e non osservato disposizioni inerenti alla prevenzione degli infortuni sul lavoro».

Una ipotesi, tuttavia, quella del sabotaggio degli impianti che, in tutti i casi, Capristo cercò di dare in bocca alla stampa.

Come ha ricordato, infatti, un giornalista anche lui ascoltato dai giudici di Potenza come persona informata sui fatti: «Il procuratore disse che non era più necessario il sequestro, in quanto tutti gli accertamenti del caso erano stati effettuati, specificando che quanto ai responsabili del fatto non si escludeva alcuna pista, aggiungendo che tra queste vi era anche quella relativa a elementi di forze contrarie sia interne che esterne all’Ilva che remavano contro il risanamento ambientale, facendo quindi prefigurare l’ipotesi che potremmo definire di sabotaggio, come in termini giornalistici fecero alcuni colleghi».

Giustizia per Morricella

Un anno prima della morte dell’operaio Giacomo Campo, una altra comunità, quella di Martina Franca a cui apparteneva Alessandro Morricella, 34enne investito da un getto di ghisa incandescente mentre lavorava all’interno di AFO2, l’altoforno 2, era stata scossa da un incidente mortale. Era il 12 giugno 2015. Quel giorno un corteo rabbioso composto da centinaia di cittadini e operai aveva attraversato la città vecchia di Taranto per dirigersi verso la grande fabbrica, protestando contro quella che era considerata dalla popolazione tarantina l’ennesima morte causata dalla gestione Ilva.

«Alessandro Morricella, morto per decreto», era il titolo di uno striscione che campeggiava davanti al tribunale di Taranto, sorretto dagli amici e dalle amiche dell’operaio ucciso, quando qualche anno dopo è cominciato il processo per stabilire i colpevoli di quella morte.

Una frase particolarmente evocativa che stava allora a significare la circostanza che quell’impianto dove l’uomo lavorava, l’AFO2, appunto, già sequestrato dai magistrati tarantini nel 2012 insieme all’intera area a caldo dello stabilimento siderurgico, era stato “riaperto” nemmeno un mese dopo da un decreto del governo Renzi che ne aveva così garantito la produzione.

Un decreto legge che fu poi dichiarato illegittimo dalla Corte costituzionale nella primavera del 2018. «La sentenza della Corte costituzionale non incide minimamente sulla operatività dell’impianto», commentò a margine di quella sentenza l’allora commissario straordinario di Ilva, Enrico Laghi: «Pur in presenza del decreto legge, giudicato incostituzionale, per il dissequestro dell’altoforno avevamo scelto di intesa con la procura di Taranto la via ordinaria prevista dal codice di procedura penale».

Intanto, dopo sette anni, Alessandro Morricella attende ancora giustizia, con il processo di primo grado che si trova ancora alle battute iniziali e che vede alcuni imputati, tra cui l’attuale direttore dello stabilimento siderurgico, ex Ilva-Arcelor Mittal, ora Acciaierie d’Italia, Ruggero Cola, accusati di «imprudenza, negligenza e imperizia», per non aver dotato i lavoratori di «attrezzature idonee ed appropriate alle lavorazioni da svolgersi» e per aver omesso di adottare «adeguate misure tecniche ed organizzative, in particolare schermi protettivi o altri mezzi idonei a tutelare l’incolumità dei lavoratori addetti alle operazioni di colata e di quelli che possono essere investiti da spruzzo di metallo fuso o di materiali incandescenti». Proprio in riferimento alle indagini che riguardavano la morte dell’operaio Alessandro Morricella e che vedevano coinvolto, tra gli altri, il potente manager Ruggero Cola, Carlo Maria Capristo, capo dei giudici tarantini fino allo scorso anno: «Richiedeva al pm titolare di valutare favorevolmente la posizione dell’ingegnere Ruggero Cola, difeso dall’amico avvocato Ragno, suggerendone lo stralcio e la definizione con richiesta di archiviazione». Questo si legge nell’atto di accusa disposto dalla procura di Potenza in cui l’allora procuratore capo di Taranto è definito «asservito», per avere «dapprima sollecitato il pm titolare delle indagini a concedere la facoltà d’uso dell’AFO 2, nonostante l’accertata parziale inadempienza da parte dell'Ilva alle prescrizioni». Non solo. Capristo avrebbe concordato con il manager Nicoletti, quest’ultimo considerato il gestore di fatto degli stabilimenti Ilva, che di conseguenza esercitava pressioni sull’avvocato Francesco Brescia (dell’ufficio legale dell’azienda) una versione dei fatti in base alla quale l’ultimo anello della catena di comando della fabbrica, «l’operatore sul campo di colata fosse indotto a confessare la sua esclusiva responsabilità onde escludere qualsivoglia coinvolgimento dell’azienda e della dirigenza». Una strategia processuale che tuttavia non aveva avuto seguito per l’opposizione dello stesso legale Francesco Brescia, il quale replicò a Nicoletti: «che non era possibile imporre confessioni anche perché così l’operaio Catucci avrebbe perso il posto di lavoro e sarebbe stato condannato». È un fatto, comunque, che a distanza di qualche anno, mentre la famiglia di Alessandro Morricella ne piangeva la morte, il procuratore capo di Taranto tentava di insabbiare le indagini ponendosi in contrasto con i colleghi magistrati del suo stesso ufficio. «Mi sentivo quasi delegittimata», si è sfogata la pubblico ministero in forza alla procura di Taranto, Antonella De Luca, davanti ai magistrati di Potenza che l’hanno interrogata come persona informata sui fatti.

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