Eravamo tutti appollaiati sulle cassettiere dell’ufficio centrale, incastrati uno all’altro come sugli spalti di un’arena che poi era il lunghissimo tavolo dove intorno c’erano Sandro Viola e Miriam Mafai, c’era Giampaolo Pansa, c’erano Alberto Jacoviello e Mario Pirani, c’era Nello Ajello, c’era Bernardo Valli, c’era Roselina Balbi, c’erano Enzo Forcella e Antonio Gambino. Ogni tanto calava da Milano anche Giorgio Bocca.

Molti di noi non avevano ancora 25 anni, tutti però avevamo diritto d’ingresso e di parola alla riunione del mattino, la “messa cantata” del direttore. Lui entrava fra le 10.30 e le 11 con un post it giallo in mano, da una parte un elenco di nomi e dall’altra un “viva” o un “abbasso”, i buoni articoli e gli articoli mediocri pubblicati sul giornale. In tremante attesa del suo giudizio davanti a quella platea eccellente, trattenevamo il fiato.

A volte, capitava che Scalfari allungasse la nostra agonia con una telefonata. Al presidente della Repubblica Sandro Pertini, al segretario del Partito comunista Enrico Berlinguer o a quello della Democrazia cristiana Ciriaco De Mita. Azionava il pulsante del vivavoce e parlava con loro, sentivamo domande, risposte, battute, qualche sfogo. Con gli occhi spalancati e la bocca aperta poi ascoltavamo quegli altri intorno al tavolo, i “mostri sacri”, le grandi firme che dibattevano del mondo fino a quando toccava a lui. E nella stanza scendeva il silenzio.

Sempre nella stessa posizione, alla destra il vicedirettore Gianni Rocca («che teneva Scalfari sulle spalle», ricordano i fondatori per esaltare il ruolo che aveva avuto Gianni nell’avventura), alla sua sinistra il giovanissimo Mauro Bene che per il direttore era come un figlio.

E di fronte il vecchio Franco Magagnini, il caporedattore del giornale, mestiere imparato sulla strada, sensazionale fiuto per la notizia, un livornese sanguigno e di cuore grande, un caporedattore “parlante” come negli anni successivi raramente se ne sono trovati nei giornali, caporedattore nel senso letterale del termine, capo della redazione e dei suoi redattori, portatore delle loro aspirazioni e dei loro lamenti.

Era l’unico a osare una qualche critica a Scalfari. Non accadeva di frequente, ma accadeva. Per noi, gli ultimi arrivati, era una scossa elettrica, un colpo. Perché Scalfari non era solo il direttore, era anche molto altro. Il suo genio ci incantava.

La prima pagina del primo numero

Fine anni Cinquanta, Roma, i giornalisti Arrigo Benedetti, Indro Montanelli, Eugenio Scalfari / Foto AGF

Lo posso ricordare per come l’ho visto io, da un punto molto particolare di osservazione, corrispondente di Repubblica dalla Sicilia, lontano fisicamente ma vicino al cuore del giornale per la materia che trattavo, la mafia, argomento che ha avuto uno spazio importante sin dal primo numero, il 14 gennaio 1976. Un taglio a centro pagina, titolo su tre colonne, “Antimafia, un documento segreto”, articolo a doppia firma, Bruno Corbi e Roberto Chiodi.

Lo posso raccontare per come sono cresciuto in quella comunità giornalistica, per come Scalfari ha dato anima alla carta e a noi una favolosa occasione che non sempre nella vita può arrivare.

Eravamo a cavallo fra gli anni Settanta e Ottanta e, se fino a qualche stagione prima, il direttore “non sentiva ancora il suo pubblico”, finalmente il miracolo si stava ripetendo ogni mattina in edicola.

Le grandi inchieste sul movimento studentesco e sulle Brigate rosse, il sequestro di Aldo Moro con la “linea della fermezza” tenuta dal giornale contro ogni trattativa per la sua liberazione, la scoperta della loggia P2 e il concorrente diretto – il Corriere della Sera – colpito mortalmente dallo scandalo della massoneria di Licio Gelli che si era infiltrata ai suoi livelli più alti.

Repubblica era diventata Repubblica. Una mescolanza fra i grandi del giornalismo italiano e un drappello di cronisti alle prime armi con la passione e la straordinaria fortuna di ritrovarsi lì in mezzo, liberi, liberissimi di rovistare in ogni angolo d’Italia.

Di questo privilegio ne eravamo consapevoli già al tempo ma, per come poi sono andate le cose, quarant’anni dopo avremmo capito meglio, quarant’anni dopo avremmo capito tutto della buona sorte che il destino ci aveva riservato.

Mai un discorso obliquo per una notizia apparentemente troppo spinta o che potesse irritare qualcuno, mai una censura, neanche una fastidiosa pressione. Ma c’era anche il contraltare, il lato più scomodo, i rimproveri severi o severissimi che venivano recapitati sempre con una lettera. Per l’approssimazione, la superficialità di un pezzo, la trascuratezza nella scrittura, per un’informazione non completa finita precipitosamente in pagina.

Il rotor di piazza Indipendenza

Redazione di Repubblica, dibattito con il direttore Eugenio Scalfari, Edgardo Bartoli (di spalle), Sandro Viola, Livio Zanetti (direttore de L'Espresso), e Vittorio Gorresio / Foto AGF

Nell’anno di fondazione del giornale, il 1976, ancora non c’ero, avevo appena iniziato a fare il cronista all’Ora di Palermo. Ma i vecchi amici di Repubblica mi hanno sempre raccontato dei primissimi passi di Repubblica. E di quello che gli allora aspiranti giornalisti chiamavano “il rotor”.

C’erano gli editorialisti, i commentatori, gli inchiestisti e poi ragazzi come Luca Villoresi, Carlo Rivolta, Lucio Caracciolo e lo stesso Mauro Bene.

Il primo di loro che arrivava in redazione si fiondava sull’unica macchina per scrivere libera e stendeva il suo articolo, gli altri aspettavano fremendo il turno, uno dopo l’altro ruotavano in uno stanzone, era il “rotor” di piazza Indipendenza.

Fresco, moderno, irrequieto e mai paludato, era il giornale di Eugenio Scalfari, pensato con l’editore Carlo Caracciolo con il quale il direttore aveva una comune visione dell’Italia che doveva scrollarsi di dosso polvere e retorica. Nella cultura e nella politica, nell’economia e nel costume. L’Italia del cambiamento. Per noi ragazzi, perché ragazzi eravamo, era come vivere in un sogno. Fatica e voglia di vedere lontano, oltre.

Sudore e quella carta sporca d’inchiostro che poteva incidere ogni giorno su qualcosa o su qualcuno, modificare, trasformare, dare uno scatto a un paese che ci sembrava arcaico anche nel modo di fare giornalismo.

Il mio primo articolo su Repubblica l’ho pubblicato il 22 luglio del 1979, il giorno prima a Palermo avevano ucciso il capo della squadra mobile Boris Giuliano. Avrei scritto dalla Sicilia, e sempre per Repubblica, per quasi altri 25 anni prima di trasferirmi a Roma.

I telegrammi 

Scalfari in redazione / Foto AGF

Ogni tanto mi arrivava un telegramma del direttore, sì, proprio un telegramma: Scalfari mandava telegrammi ai corrispondenti italiani e agli inviati in giro per il mondo. «Bellissimo pezzo Eugenio». Le telefonate erano di altro tono.

Una sera, era il 1983 o il 1984, una delle sue segretarie mi passò il direttore. L’ora era insolita, si stava chiudendo il giornale. Ero in ansia, il giorno prima avevo scritto un articolo forse un po’ troppo “siciliano” su ciò che stava accadendo intorno a me, ero laggiù e vivevo con angoscia e dolore la spaventosa Palermo.

Il direttore fu sbrigativo: «Il tuo articolo di ieri non mi è piaciuto, c’era troppo cuore e poca ragione». Scalfari mi stava comunicando i suoi dubbi sulla corrispondenza dalla Sicilia di 24 ore prima, che però lui aveva messo in pagina pur non convivendone l’impostazione né i contenuti.

Probabilmente è stato uno dei giorni più significativi della mia vita professionale. Ritorna ancora quella parola: fortuna. Ma quanta fortuna ha avuto quella generazione giornalistica che ha incontrato Eugenio Scalfari?

Nelle redazioni è usanza darsi del tu fra tutti. E a Repubblica tutti davano del tu a Scalfari, anche qualche fattorino, anche qualche telescriventista o dimafonista (al tempo le agenzie arrivavano sulle telescriventi, i pezzi che gli inviati e i corrispondenti “dettavano” venivano registrati dai dimafoni che poi li trascrivevano e li passavano in redazione). Io però non ci sono mai riuscito.

Sempre del Lei, fino all’ultimo. In una delle sue sempre più sparute visite al giornale ho incontrato il direttore accompagnato da Dario, una volta suo autista e poi affettuosa ombra. Ci siamo salutati e mi ha chiesto perché «continuavo ostinatamente a dargli del Lei». Con un sorriso si è risposto da solo: «Forse perché vuoi mettere distanza tra me e te». Gli ho sorriso anch’io: «Caro direttore, ho semplicemente il senso delle proporzioni».

Nel 1986, a dieci anni dalla nascita di Repubblica, ogni dipendente – dal vicedirettore all’ultimo impiegato assunto – si è visto consegnare a casa un elegante orologio, un Baume & Mercier, dono di riconoscenza di Scalfari per cosa era ormai Repubblica.

L’inseguimento al più grande giornale italiano si era appena concluso: Repubblica l’aveva raggiunto e superato nelle vendite. Era l’obiettivo che si era posto Scalfari fin dall’inizio. Ci aveva sempre creduto, sicuro di farcela. L’anno prima, il 1985, d’estate avevo lasciato Palermo all’improvviso e per diversi mesi. Una telefonata al direttore, poi il primo volo: «Non posso stare qui, è successo qualcosa».

Il primo incontro ravvicinato

Eugenio Scalfari / Foto AGF

Dopo poche ore ero già a Roma e, lì nella sua stanza, ho avuto il primo vero incontro ravvicinato con Scalfari sulla questione mafia. A Palermo avevano appena ucciso il capo della “catturandi” Beppe Montana, il poliziotto che dava la caccia ai latitanti.

Qualche giorno prima della sua morte Montana era venuto a casa mia in un orario insolito, abitavo in una borgata di mafia, e a me – per quello che aveva detto sprofondato in un divano – sembrava già morto.

Dopo il delitto ho avuto paura e mi sono allontanato dalla Sicilia. Da Roma ho scritto tutto quello che sapevo sulla solitudine di Montana e poi su quella di Ninni Cassarà, l’altro funzionario di polizia ammazzato a Palermo quell’estate. Un isolamento nato anche dentro il ministero degli Interni.

Qualcuno dal Viminale chiamò il direttore per avvertirlo che ero «portatore di interessi palermitani». Volle sapere. Gli raccontai come stavano le cose: «È vero, sono portatore di interessi palermitani, gli interessi dei morti, quelli che hanno appena ucciso».

Il giorno dopo in prima pagina, di spalla, Scalfari pubblicò una lettera di Saveria Antiochia, la madre di uno terzo poliziotto assassinato in Sicilia in quell’estate del 1985. Il Viminale non ne uscì affatto bene.

Da quel momento, e con il clima che a Palermo si faceva sempre più incandescente con l’inizio del maxi processo e le trame intorno ai giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, si stabilì una sorta di telefono rosso fra la redazione di Palermo (casa mia, all’Acquasanta) e piazza Indipendenza.

A fare da raccordo con Scalfari, per ogni piccola o grande notizia che la Sicilia vomitava quotidianamente, era entrato in scena con il suo preziosissimo giornalismo e con tanta amicizia Giuseppe D’Avanzo, cronista napoletano appena sbarcato a Roma.

Nasce una sorta di mini pool sulla mafia sotto la benedizione del direttore, al palazzo di Giustizia di Palermo avevano il loro, a Repubblica avevamo il nostro. Scambio permanente di informazioni, fonti condivise, confronto serrato (e alcune volte anche brusco) sulla decifrazione degli avvenimenti. Poi libertà di scrivere. Sempre.

Una redazione è un piccolo mondo dove scorre non solo l’esistenza degli altri ma naturalmente anche quella di chi la popola. E Scalfari, che la parte più giovane della redazione chiamava Barbapapà, aveva premure che è difficile dimenticare. Per la grafica con problemi di tossicodipendenza, sempre tenuta al coperto, tutelata.

Per la figlia di un vecchio collega che, sul letto di morte, l’aveva pregato di avere cura di lei. Promessa mantenuta. Per una giornalista appena lasciata dal marito. Convocata nella sua stanza, l’ha fatta sedere e le ha detto: «Ricordatelo, tu sei una donna che si prende e non una donna che si lascia». Sapeva tanto su ciascuno di noi. Molto meridionale di temperamento, caldo, le sue origini dopotutto erano calabresi.

Ma il regalo più grande che ha fatto alla sua Repubblica, come ricorda sempre Alessandra Longo, una triestina arrivata alla redazione centrale alla fine degli anni Ottanta, è aver formato una «borghesia giornalistica».

Se all’inizio dell’avventura c’erano solo le eccellenze da una parte e dall’altra una piccola folla dei giovanissimi cronisti, anno dopo anno ha fatto crescere professionalmente decine di cronisti spalmando il loro sapere in pagina ogni mattina. Un’altra chiave del successo di Repubblica.

Telefonata a tarda sera del direttore: «Giorgio domani viene in Sicilia e ti chiamerà, portalo a fare uno di quei tuoi giri misteriosi all’interno dell’isola». Rispondo “sì direttore”, ma non ho idea di chi sia Giorgio. Lo capisco il giorno dopo: «Sono Bocca, quando ci vediamo?».

Lo incontro con sua moglie, Silvia Giacomoni, che era anche lei una di noi, giornalista di Repubblica, sua moglie non lo chiamava mai per nome ma “il Bocca”. Il direttore mi aveva assegnato un compito difficile, di responsabilità grande: fare da guida a Bocca per una settimana. L’ho accompagnato di qua e di là, gli ho presentato il giudice Paolo Borsellino, l’ho portato a Corleone, a San Giuseppe Jato, a Trapani, a Castellammare del Golfo, a Portella della Ginestra. Un altro dei grandi regali che mi ha fatto Eugenio Scalfari.

Repubblica è il solo giornale italiano che il 24 maggio 1992, il giorno dopo l’uccisione di Giovanni Falcone, ha dedicato l’intera prima pagina alla strage. Gli altri quotidiani avevano anche altri titoli, altre notizie, Repubblica si è distinta pure quella mattina.

La sua intervista a Buscetta

Giuliano Ferrara e Eugenio Scalfari / Foto AGF

Di mafia ha sempre lasciato fare a noi, agli esperti del ramo. Tranne una volta. Sette mesi dopo la strage di Capaci il direttore, a dicembre, ha incontrato Tommaso Buscetta, il grande pentito di mafia che aveva consegnato a Falcone le chiavi per decifrare Cosa nostra.

Gliel’ha portato Giuseppe D’Avanzo, insieme hanno firmato una bellissima intervista, la prima da quando Buscetta era tornato in Italia. Sul suo dolore per Capaci e via D’Amelio, sulla sua delusione per la giustizia italiana, sul circo dove era stato catapultato con decine di pubblici ministeri che lo volevano interrogare.

«Mi ha colpito la cultura umana di Buscetta, il suo senso della dignità», mi ha raccontato qualche settimana dopo l’incontro con il pentito. Nel mio schedario conservo ancora gelosamente l’edizione di Repubblica del 17 marzo 1988, in prima pagina un suo articolo. Su di me. Mi avevano appena arrestato con la cervellottica accusa di “concorso in peculato con pubblico ufficiale rimasto ignoto”, insieme al collega dell’Unità Saverio Lodato.

Per il procuratore capo della repubblica di Palermo, Salvatore Curti Giardina, che in quella Palermo in tre anni e mezzo non aveva ordinato neanche la cattura di un ladro di galline, dovevamo finire in galera perché ci eravamo impossessati di beni dello stato, le fotocopie delle rivelazioni del pentito Antonino Calderone.

Da lì l’accusa di peculato e il carcere per otto giorni. “Le manette alla verità”, il titolo dell’editoriale di Scalfari. Uscito di prigione andai subito a trovarlo. «Cosa vuoi fare adesso? Dimmi se hai bisogno di andare lontano da Palermo, dimmi dove vuoi andare e ti ci mando».

Volevo restare al mio posto, volevo restare a Palermo. Con quel direttore mi sentivo al sicuro anche lì. Il giorno del suo congedo dalla redazione, nel maggio di ventisei anni fa, ci ha salutati citando un verso dell’Amleto di Shakespeare: «Vi lascio il rosmarino per i ricordi e le viole per i pensieri».

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