Muhammet al Molki piange come fosse successo ieri, ci mostra tutta la sua famiglia in lacrime che chiede giustizia per quelle risposte mai arrivate. Suo figlio Sultan avrebbe compiuto sette anni il 28 febbraio, due giorni dopo il naufragio di Cutro. Vivevano tutti insieme a Tresibonda, una città turca sul mar nero dove però i siriani faticano a trovare lavoro e molti decidono di affidarsi ai trafficanti di uomini.

«Sono arrivato papà sto bene, siamo in Italia grazie a Dio, stai tranquillo». È l’ultima frase pronunciata dal suo bambino che Muhammet sentirà finché vivrà. Era la vocina allegra di Sultan, mentre rassicurava il suo papà in un audio Whatsapp inviato la notte del 26 febbraio 2023. Il bambino intravedeva la costa italiana, erano arrivati: lui, lo zio Feras e il fratello grande Assad che di anni ne ha 19. A bordo si iniziava a respirare l’entusiasmo della vittoria dopo quei giorni di viaggio pieni di paura. «Non ci vorrà molto», li avevano rassicurati gli scafisti.

Sultan nell’audio messaggio ride mentre comunica con la sua famiglia, era stato lui ad insistere per seguire il fratello maggiore in quel viaggio che avrebbe avuto come ultima destinazione la Germania. Ma qualcosa ha trasformato quel 26 febbraio da sogno in maledizione. La barca a poche centinaia di metri dalla riva si incaglia e tutti i migranti finiscono in acqua mentre fuori è notte fonda e le loro grida «help help» non le sente nessuno o quasi. La Summer love, questo il nome della barca dove viaggiavano i migranti, finisce in mille pezzi quando mancano ormai pochissimi metri alla spiaggia di Steccato di Cutro.

Il corpo di Sultan

Assad, Feras e Sultan finiscono nell’acqua gelida e si aggrappano ai pezzi di legno dell’imbarcazione distrutta. Assad prende in braccio Sultan e prova a tenerlo disperatamente fuori dall’acqua. Ma non basta.

Quando la corrente li trascina a riva passa un’altra ora prima dell’arrivo dei soccorsi e il bambino muore di freddo. Assad urla disperato, ma ad accorrere sono solo i pescatori del luogo che provano a prestare soccorso, sollevano i corpi uno ad uno: la maggior parte, però, sono già cadaveri. Lo scaldano, lo coprono, provano a rianimarlo, ma non serve più a niente.

Sultan è morto per ipotermia, per quei soccorsi arrivati troppo tardi. Una fitta al cuore troppo forte per suo padre Muhammet Al Molki, che non riesce a spiegarsi quell’intervallo di tempo senza aiuto. Inerzia fatale per suo figlio, e per gli altri 34 bambini presenti sulla Summer love, morti annegati.

Quella di Sultan è una famiglia di siriani approdati in Turchia durante la guerra, i suoi due fratelli e le sue tre sorelle, aspettavano una sua chiamata, dopo il messaggio vocale che li aveva rassicurati. Ma non è mai arrivata.

Il fratello Assad per un po’ di tempo gli ha raccontato che Sultan non poteva venire al telefono perché dormiva, i sensi di colpa riempiono le sue notti e lo divorano. «Mamma lo aveva affidato a me, non me lo perdonerò mai», ha i sensi di colpa Assad.

Ma Assad avrebbe potuto fare ben poco di più di quello che ha fatto, proteggendo il corpicino del fratello dall’annegamento.

Lacrime e rabbia

«La disperazione non può mai giustificare viaggi pericolosi», aveva detto in conferenza stampa il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi subito dopo il naufragio. Chiediamo ad Al Molki cosa ne pensa di queste dichiarazioni. «Lo sapevo, sì, che questo viaggio sarebbe stato pericoloso. Ma qui in Turchia non ci vogliono, rischiamo di dover tornare indietro e questo non lo potevo permettere».

Sognavano l’Europa. «Mio figlio grande, Assad, aveva la responsabilità di tutta la famiglia perché io sono rimasto invalido durante la guerra, qui non riusciva a lavorare ed era quasi finito in depressione, il suo unico orizzonte possibile era l’Europa ed era l’unica speranza anche per tutti noi», dice senza esitazione asciugandosi le lacrime e mostrando il volto di Sultan, con quel suo caschetto nero e la passione sfrenata per il calcio. Andava a scuola? «Certo, frequentava la prima elementare e lo amavano tutti», singhiozza.

Ad aspettarli su quella riva non c’era nessuno, solo i pescatori provavano a telefonare per chiedere aiuto. Oggi sappiamo con certezza che la guardia costiera conoscesse le condizioni di difficoltà in cui stava viaggiando quella barca e non soltanto per l’avviso dell’Agenzia europea Frontex. «Lo sappiamo grazie alle testimonianze dei pescatori», dice Francesco Verri, l’ avvocato dei familiari delle vittime.

Tradimento di stato

Muhammet, oggi, oltre al dolore per la perdita di suo figlio è lacerato dalle promesse tradite. Assad, infatti, era uno di quei migranti a cui la presidente del consiglio Giorgia Meloni aveva personalmente promesso il ricongiungimento con i familiari, come segno di risarcimento per quella tragedia dove l’Italia non era esente da responsabilità.

E Invece? Niente: «Assad ci ha chiamati subito dopo l’incontro con la vostra prima ministra e noi ci eravamo un po’ consolati, o forse avevamo bisogno di illuderci di credere nel governo italiano», riflette, poi aggiunge: «Speravamo di riabbracciare il nostro figlio sopravvissuto e di poter piangere tutti assieme il nostro Sultan».

I familiari delle vittime e i superstiti del naufragio si sono riuniti sulla spiaggia di Steccato di Cutro un anno dopo la tragedia per una veglia di preghiera e di ricordo.

Il papà di Sultan e la sua famiglia non hanno potuto partecipare. L’ennesima beffa, l’ultimo sfregio alla memoria del suo bambino: «Chiedo al governo italiano di rispettare le promesse, di non lasciarci qui nella disperazione, voglio riabbracciare mio figlio e affrontare insieme a lui il nostro lutto, lui ha bisogno del nostro aiuto, vogliamo solo tornare ad essere una famiglia», è l’appello che consegna a Domani. Il corpo di Sultan è stato seppellito nel cimitero di Dresda in Germania su indicazione dei suoi cari, perché è quello l’ultimo posto dove sognava di arrivare. «Chiedo soltanto di poter portare un fiore sulla tomba di mio figlio», ci saluta il papà di Sultan, uno dei bambini uccisi dal cinismo il 26 febbraio 2023.

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