A Macao il 10 e il 12 ottobre i Brooklyn Nets e i Phoenix Suns si sfidano alla Venetian Arena in un doppio confronto prestagionale. È la prima volta dal 2019, dopo un post a favore di Hong Kong - dove Pechino opprime tutti gli oppositori politici con azioni che gli Stati Uniti hanno sempre condannato – del general manager degli Houston Rockets. In sei anni ci sono state grosse perdite economiche per la Lega e per i suoi investitori. Fino al dietrofront
Dove i dazi dividono, interviene lo sport. A sanare le distanze politiche tra Donald Trump e Xi Jinping ci pensa il basket made in Usa perché, dopo sei anni di interruzione, il 10 e il 12 ottobre torna a pieno ritmo l’Nba sotto il cielo di Pechino. I Brooklyn Nets e i Phoenix Suns si sfidano alla Venetian Arena di Macao, in un doppio confronto prestagionale nel continente asiatico.
Si riparte proprio dai Nets, l’ultima squadra a giocare in Cina contro i Los Angeles Lakers nel 2019. A margine di quella partita un post su Twitter a sostegno di Hong Kong dell’ex general manager degli Houston Rockets, Daryl Morey, aveva provocato una crisi diplomatica insanabile. Quello di Macao è un passo cauto verso una riconciliazione in cui sperano anche aziende e sponsor danneggiati dall’interruzione dei rapporti.
Prove di ripartenza
Macao non è una scelta casuale. Come una terra di mezzo, autonoma dal governo centrale, è una prova per ripartire in futuro anche nella Cina continentale. «Non vediamo l'ora di portare l'entusiasmo ai tifosi di Macao», ha detto Mark Tatum, vicecommissario e Direttore operativo dell’Nba.
Le partite sono il frutto di una mediazione durata anni, anche grazie ad alcuni cambi al vertice nella lega americana. Se gli Stati Uniti non possono andare in Cina, è la Cina che va negli Stati Uniti. È così che nel 2023 Michael Ma, figlio di un ex direttore della Cctv, la televisione controllata dal governo di Xi, è diventato amministratore delegato di Nba Asia. Oltre a Ma, un ruolo chiave è stato giocato anche da Joe Tasi, oggi proprietario dei Nets e cofondatore di Alibaba, una delle aziende più grandi di Pechino e del mondo.
Pecunia non olet
«Combattete per la libertà. State al fianco di Hong Kong», questo il messaggio affidato ai social da Daryl Morey nel 2019. Poco dopo il post era stato cancellato ma con scarsi risultati. Le reazioni dei vertici dell’Nba sono state fin da subito contrastanti e soprattutto spaventate, sintomo che tutti guardavano più al rischio di perdere il più grande mercato estero per il basket americano. Adam Silver, il commissario generale della lega, inizialmente aveva difeso il diritto alla «libertà di espressione» di Morey, per poi cambiare opinione.
Su Twitter aveva definito «deplorevole» il commento del collega, colpevole di «aver profondamente offeso» i suoi «amici e tifosi della Cina». Da anni ad Hong Kong il governo cinese opprime tutti gli oppositori politici con azioni che gli Stati Uniti hanno sempre condannato, servendosi anche di sanzioni contro alcuni funzionari della città-stato. Ma questo l’Nba lo ha ignorato.
Il mercato cinese
Il basket è arrivato in Cina negli anni Novanta con Michael Jordan e i suoi Chicago Bulls. Nel 1987 la Cctv aveva già firmato un accordo di trasmissione delle partite nel paese, ma l’Nba è diventata davvero passione a Pechino nel 2002 quando Yao Ming, oggi simbolo nazionale, è stato acquistato dagli Houston Rockets.
Il talento asiatico venne subito inseguito da tutti gli sponsor in cerca di una via di accesso al mercato orientale. L’ingresso di Pechino nell’Organizzazione mondiale del commercio nel 2001 ha favorito il processo. Inizia da quel momento una crescita verticale di Nba Cina, che nel 2007 ha aperto una divisione separata sul territorio.
Nell’ultima stagione di Nba trasmessa su Tencent Sports ci sono stati circa 500 milioni di spettatori, il mercato estero più grande per gli Stati Uniti. Prima del 2019 Pechino era considerato il motore della crescita futura per la lega e in quell’anno era stata firmata un’estensione contrattuale quinquennale da 1,5 miliardi di dollari con Tencent Holdings per la trasmissione delle partite.
Un disastro economico
Nel 2020, a un anno dalla crisi, Adam Silver aveva dichiarato che il danno sarebbe ammontato a 400 milioni di dollari. Un numero al ribasso se si guarda al commercio parallelo del mercato orientale. A Pechino solo gli investimenti dei proprietari Nba ruotavano intorno ai 10 miliardi e andavano ben oltre lo sport. Il patron dei Miami Heat, Micky Arison, ha investito in Cina 375 milioni di dollari con la sua azienda Carnival Corp, il più grande operatore di crociere al mondo. Nel 2018, Carnival aveva lanciato una joint venture con China state shipbuilding corp (Cssc), per una compagnia di crociere cinese.
La Cssc è un conglomerato statale che costruisce anche navi da guerra e che gli Stati Uniti hanno inserito nel 2022 tra le società estere che agiscono contro la sicurezza nazionale di Washington. Nessuno per questo è interessato a scontentare il governo cinese, come dimostrato dal caso di Enes Freedom. Nato Enes Kanter, il giocatore Nba turco-statunitense ha iniziato nel 2021 a criticare le politiche repressive della Cina verso la minoranza degli uiguri dello Xinjiang. Da quel giorno il suo minutaggio è sceso verticalmente fino alla rescissione del contratto. Oggi trentatreenne Kanter non gioca più.
Back to brand
Dall’annuncio del ritorno dell’Nba in Cina anche le grandi star del mondo del basket sono tornate a sponsorizzare i loro brand personali nel paese. Un’occasione da non perdere dato che il mercato cinese dell’abbigliamento sportivo vale 60 miliardi di dollari all’anno, di cui 33 solo di sneakers. A settembre Lebron James è andato a Shanghai e Chengdu dove ha incontrato orde di fan nel suo Forever King Tour promosso da Nike. Fino a sei anni fa era un appuntamento annuale tanto che dal 2005 a oggi ha visitato la Cina 14 volte. Due settimane prima, durante la promozione di Under Armour, Stephen Curry era stato accolto a Chongqing con uno spettacolo aereo di 5.000 droni.
Dopo sei anni di assenza però il mercato non si è fermato e il mondo degli sponsor è cambiato. Oggi tanti marchi cinesi sono più forti di un tempo, primo su tutti Anta, il cui fatturato solo nei primi sei mesi del 2025 è salito del 14 per cento raggiungendo circa 5 miliardi di dollari. Ora è la terza azienda di abbigliamento sportivo al mondo in termini di vendite. In parallelo i grandi marchi occidentali sono invece calati con Nike che ha perso il 13 per cento delle vendite nel mercato cinese, mentre il fatturato di Under Armour nel mercato Asia-Pacifico è sceso del 14 per cento.
© Riproduzione riservata



