C’era una volta in NBA. I Boston Celtics di Russell, i Los Angeles Lakers di Magic Johnson, i Chicago Bulls di Jordan e poi ancora i San Antonio Spurs di Duncan, i Miami Heat di James e i Golden State Warriors di Curry. Le dinastie hanno eclissato il sistema fin dai suoi albori, ma ormai è trascorso quasi un decennio da quando l’ultima ha lasciato la sua impronta.

Anche stavolta, per il settimo anno consecutivo, il campionato di basket statunitense avrà un vincitore diverso. Oklahoma City Thunder o Indiana Pacers. Tutt’e due al primo anello nella loro storia. Un’era così equilibrata, capace di oscurare l’unico altro periodo di bilanciamento (sei franchigie differenti sul trono tra il 1975 e il 1980), non si era mai vista in oltre 70 anni di storia.

Non nasce per caso. È stata cercata. La parità è il nuovo linguaggio attraverso cui parla agli appassionati il commissioner Adam Silver, l’avvocato che guida e controlla la lega. Un linguaggio codificato nell’ombra e che potrebbe continuare a scandire il futuro.

Nuova aspirazione

La NFL, la lega di football, è la regina indiscussa degli sport americani sia in termini di entrate, sia per valore economico medio delle sue squadre. Le prime ammontano a 20.2 miliardi di dollari (stagione 2023/24) e il secondo è stimato in 5.93 miliardi secondo i dati di Sportico. Soprattutto la NFL ha avuto un ricambio florido tra i vincitori. Negli ultimi 25 anni sono state 13 le formazioni diverse a fregiarsi del titolo di «campioni del mondo». La NHL e la MLB, i campionati di hockey e di baseball, fanno addirittura meglio con 14 e 16 squadre. E la NBA? Era arrivata a 11.

Ma se non puoi batterle, comprale. Se non puoi comprarle, imitale. È stato proprio per inseguire il desiderio di avere più pretendenti al titolo che i vertici del basket statunitense hanno deciso di cambiare rotta, varando nel luglio 2023 il nuovo Collective Bargain Agreement, il contratto di lavoro collettivo al cui interno sono state inserite delle camicie di forza per limitare le operazioni di mercato di quelle franchigie che spendono troppo, innescando così una distribuzione più equa dei cestisti. La novità principale è l’introduzione di una seconda cinghia capace di imbrigliare chi esagera.

EPA

La manovra

Al cosiddetto salary cap, il tetto salariale che indica quanto una società può spendere di monte ingaggi in una singola stagione, fa da cane da guardia la luxury tax. È la tassa che ogni team è costretto a pagare in caso di violazione del tetto del salary cap. Consiste nel versare alla lega 1.50 dollari per ogni dollaro con cui si supera il massimale consentito. Più si sfonda, più la cifra si alza. Non sembra aver messo paura a tanti. Nell’ultimo decennio un quarto delle 30 squadre in NBA ha preferito sborsare anziché muoversi nei limiti.

Da qui la nuova spada di Damocle, che scatta quando si viola la luxury tax di una ventina di milioni. A quel punto, scegliere di eccedere significa condannare la propria franchigia alle sabbie mobili: niente più riserve economiche per ingaggiare i free agent, niente più nuovi acquisti tramite il meccanismo del buyout (la strategia che permette ai giocatori di rimettersi sul mercato firmando una separazione consensuale con la propria società), niente più inserimento di denaro negli accordi con altri team.

Per vari general manager che se ne lamentano, c’è un commissioner che difende la sua scelta: «Vogliamo che ci sia più relazione tra il successo sul campo e le spese. Capisco la frustrazione perché abbiamo bloccato la flessibilità di chi va oltre il nuovo livello. Ma la nostra intenzione è avere una migliore distribuzione del talento in tutta la lega» ha dichiarato Silver in una delle sue ultime uscite pubbliche.

Ci sono diverse vie per vincere, e ricoprire d’oro i giocatori non può essere l’unica. La finale tra Oklahoma e Indiana dice che l’espediente comincia a funzionare. Per la prima volta nella storia, sono arrivate alla partita per il titolo due squadre che non hanno dovuto pagare la tassa. 

Dominio europeo

Un altro fattore ha dato il via all’era della parità ben prima del terremoto economico ed è stata l’apertura verso l’Europa. Per anni dominata dai giocatori di casa, la NBA ha scoperto che dall’altra parte dell’Oceano non esistono solo il mare, il Colosseo o la Tour Eiffel, ma anche un discreto parco di talenti. Forti, intelligenti, carismatici. Anche tecnici, perché nel nostro continente ai ragazzini viene insegnato a giocare fin dai primi palleggi. I fondamentali sono l’architrave su cui costruire il successo, Nel paese dove il primo comandamento è mettersi in mostra come spietati realizzatori, permette di fare la differenza.

Se ne sono accorti i Milwaukee Bucks per anni costruiti intorno al greco Giannis Antetokounmpo, i Denver Nuggets che restano in cima grazie al serbo Nikola Jokic, gli Houston Rockets che hanno investito sul centro turco Alperen Sengun e i Dallas Mavericks che avevano fatto di Luka Doncic il loro faro, prima di cederlo ai Los Angeles Lakers. Il futuro si prepara alla tempesta promessa da Victor Wembanyama, mentre il francese Zaccharie Risarcher e il tedesco Franz Wagner sono nuvole minacciose.

Nessuna delle franchigie in cui giocano sarebbe competitiva oggi senza il diamante europeo, a dimostrazione che pescare oltre i confini è stata la mossa giusta per aumentare le chance di vittoria. Negli ultimi sette anni – gli stessi sette anni della distribuzione della gioia – il titolo di miglior giocatore della stagione è andato a un non statunitense. L’ultimo è il canadese Shai Gilgeous-Alexander e gioca proprio a Oklahoma.

Le critiche

L’equilibrio in NBA è ancora una conquista fresca e come ogni novità spaventa. O scontenta. La critica più aspra rivolta al commissioner Silver è quella di aver smontato il progetto del suo predecessore David Stern, abilissimo nel costruire una pallacanestro su misura dei più grandi, da Magic Johnson a Michael Jordan fino a Kobe Bryant, per esportarla in tutto il mondo. Aveva bisogno di poster per vendere un prodotto.

Tutto questo è davvero svanito? Nient’affatto. Il talento c’è ancora, sta solo cominciando a essere distribuito meglio, anche per effetto di una lezione imparata dalle franchigie: i super team costosi e complessi da gestire non sono una garanzia di successi. I recenti fallimenti dei Brooklyn Nets nel periodo del Covid, dei Philadelphia 76ers di Embiid-Harden-Maxey e degli attuali Phoenix Suns sono lì a dimostrarlo.

Parallelamente i paletti economici stanno dando forma al piano Silver. Più squadre possono competere per il titolo, più speranza si distribuisce, più persone si sentono coinvolte, più folla andrà al palazzetto e farà alzare gli ascolti, comprerà merchandising. In altre parole: più denaro. La parità può quindi essere vista come il mezzo per raggiungere un fine: la NBA non vuole più essere seconda a nessuno.

© Riproduzione riservata