“Bin Laden”, “Scarpacotta”, “Beccausu”, “Melo u Jack”. Non fatevi ingannare dai soprannomi ridicoli dei protagonisti della mafia calabrese che si è presa Roma. Di simpatico in questa organizzazione criminale, chiamata ‘ndrangheta, non c’è nulla. La ‘ndrangheta capitale è silente, i loro capi parlano poco, le loro famiglie in passato hanno fatto guerre, trucidato persone, ma i figli no: oggi si muovono molto e rapidamente concludono affari con la borghesia romana. Nella capitale frequentano medici, imprenditori, commercialisti. E hanno uomini che oltre a prestare i loro servigi rappresentano il contatto con la massoneria in Calabria e nel Lazio. 

Hanno ristoranti chic, gestiscono aziende, sono titolari di società tramite le quali veicolano il denaro da riciclare. «Siamo qualche 100 di noi altri in questa zona...nel Lazio», così uno dei capi clan della ‘ndrangheta 

L’indagine nasce sull’asse Reggio Calabria-Roma. Tant’è vero che sono due le procure impegnate nel coordinamento delle operazioni. I magistrati di Reggio Calabria guidati da Giovanni Bombardieri e la procura antimafia di Roma, che ha sul caso il pm Giovanni Musarò, lo stesso che ha fatto condannare i carabinieri autori del pestaggio e della morte di Stefano Cucchi.

L’inchiesta sulla ‘ndrangheta romana restituisce l’immagine di una città assediata da un lato e accogliente allo stesso tempo con i padrini della ‘ndrangheta, benvenuti nei circoli economici e finanziari. Gli arrestati in tutto sono 43, tra affiliati e complici di una cosca composta da due famiglie: Alvaro e Penna. Gli indagati in realtà sono più del doppio, oltre 90. In gergo tecnico costituiscono una “Locale” di ‘ndrangheta, cioè una cosca strutturata su un territorio con più di 40 affiliati. A Roma, dunque, comandano loro: Alvaro è il cognome più blasonato nel panorama criminale della mafia calabrese. Nella capitale coltivano interessi finanziari da moltissimi anni senza che nessuno li disturbasse. 

Poca violenza, molti affari

La procura di Roma contesta al gruppo il reato di associazione mafiosa, oltre a un serie di delitti che vanno dal traffico di droga, estorsione e intestazione fittizia di beni. Ma come hanno specificato i procuratori dell’antimafia più che al controllo militare la ‘ndrangheta romana è impegnata a investire la notevole quantità di denaro incassata dai traffici illegali: supermercati, ristoranti, bar, pasticcerie. 

Gli investigatori della Dia hanno ricostruito sette anni di attività. In questo periodo c’è stato il salto evolutivo della cosca Alvaro-Penna su Roma. Da semplice satellite attivo nella capitale a holding del crimine, con «un esercito» a disposizione, si legge nelle intercettazioni agli atti dell’inchiesta. 

L’evoluzione ha comportato anche una ramificazione maggiore e il battesimo di una “locale” ufficiale, ossia la certificazione dell’esistenza di una cosca strutturata che solo il vertice della ‘ndrangheta in Calabria può autorizzare. Perché nonostante l’autonomia di movimento degli affiliati residenti a Roma, sulle regole e i riti che si tramandano da due secoli la ‘ndrangheta non transige: la provincia di Reggio Calabria è il riferimento culturale, custode dei principi arcaici della mafia calabrese, e i padrini a capo di questo organismo sovraordinato ai singoli clan (‘ndrine) sono incaricati di autorizzare l’apertura di nuove “locali” o cosche. 

Pronti 3 milioni

«Siamo una carovana per fare la guerra». Ma più che una guerra con fucili e pistole, le parole di uno dei due boss arrestati considerato il capo romano, rivelano la consapevolezza di essere padroni della città, pronti a conquistarla con la ricchezza che possiedono. Del resto chi pronuncia queste frasi è Vincenzo Alvaro, che per gli investigatori è uno dei boss, insieme a Antonio Carzo, che governa la famiglia criminale su Roma. Alvaro è un imprenditore prima di tutto che bazzica il centro della capitale da più di un decennio. Il suo colpo grosso lo aveva messo a segno all’epoca, quando era riuscito a rilevare il celebre Cafè de Paris di via Veneto, simbolo della Dolce Vita frequentato da Marcello Mastroianni, Anita Ekberg, Federico Fellini, Frank Sinatra e moltissimi altri divi del cinema. Alvaro fu indagato e processato per l’acquisizione del Cafè de Paris, ma poi assolto. Intanto il locale ha chiuso e non esiste più. 

Per definire questa organizzazione i magistrati si affidano al concetto di «infiltramento occulto» nella capitale. Realizzato così: «Attraverso l’intestazione fittizia ( di società ndr) controllata dalle ‘ndrine, nei gangli sociali, culturali, economici e finanziari, ponte necessario per spingersi nei territori della burocrazia amministrativa e della politica, mediante la strategica occupazione di intraprese imprenditoriali, apparentemente intestate ad incensurati, ma che facevano capo ai capi delle cosche, con denaro quantomeno di sospetta provenienza».

Alvaro, emerge dagli atti, avrebbe avuto al disponibilità di almeno 3 milioni di euro da investire su Roma. «500mila euro dovevano essere spesi subito, che non fosse una generica vanteria, ma un progetto di ulteriore espansione economica del clan criminale si capisce dal fatto che (i sodali ndr) valutavano l’apertura di una Ristopescheria».

Nell’ordinanza di arresto firmata dal giudice per le indagini preliminari del tribunale di Roma c’è traccia dell’impero economico disseminato per la strade della capitale. Dal centro alla periferia, un numero impressionante di imprenditori che in realtà sono soltanto prestanome del clan. Teste di legno «consapevoli» di lavorare per il boss. 

Massoneria

Assieme ad Alvaro a governare la ‘ndrangheta capitale c’è Antonio Carzo. Al suo fianco anche i due figli, Domenico e Vincenzo. Il primo è stato intercettato dai detective dell’antimafia mentre parla con un medico di massoneria, indicando uno dei prestanome della famiglia, un imprenditore romano, quale figura per entrare nel mondo segreto delle logge massoniche. Gli atti rivelano che Carzo si stava muovendo su più livelli per fare il suo ingresso in una “fratellanza”, tanto che cita un «tizio della loggia», che gli avrebbe chiesto «se suo padre, suo zio e suo nonno fossero o meno elementi di spicco della criminalità e lui aveva negato».

Di medici e chirurghi romani in contatto con la cosca ce n’è sono almeno due in relazione con i vertici. In un caso uno di loro è un «massone». Non è una novità, uno dei pentiti più importanti della ‘ndrangheta degli ultimi tempi è un camice bianco, massone, che aveva investito milioni in cliniche private della provincia romana. Il suo capitale relazionale era fatto da altri medici, in alcuni casi frequentatori di logge della capitale. 

Joint venture

I documenti investigativi della Dia confermano un altro dato: a Roma convivono più organizzazioni, camorra, bande locali, cosa nostra, gruppi albanesi. La ‘ndrangheta parla con tutti. E spesso interviene per rimettere le cose a posto. Come nel caso della trattativa con uno dei capi mafia di Ostia, Terenzio Fasciani. Oppure le riunioni d’affari, per collaborazioni commerciali, con esponenti del potente clan Moccia, aristocrazia della camorra campana che si spartisce la capitale con la ‘ndrine. Alvaro e Moccia parlano di quanto è estesa la loro clientela nel centro storico, che da entrambi acquista prodotti di forno. E ipotizzano di metterla assieme così da dividere i maggiori ricavi. 

C’è poi una certezza, l’operazione antimafia sulla ‘ndrangheta degli Alvaro-Penna-Carzo è l’inizio di una storia giudiziaria ancora tutta da scrivere sulle cosche calabresi romanizzate. Negli atti di questa inchiesta le coordinate per disegnare una mappa di questo potere criminale ci sono già: c’è traccia delle famiglie di Rosarno e di San Luca, paese della provincia di Reggio Calabria considerata “la Mamma” della mafia calabrese. E altri indizi svelano la presenza massiccia e organizzata di clan della provincia di Crotone e Catanzaro. Si tratta dei casati di mafia che hanno segnato la storia criminale della Calabria.

E che a Roma siedono allo stesso tavolino per discutere di affari e strategie. Un esempio può valere su tutti gli altri: tra le decine di summit organizzati negli ultimi cinque anni, quello di ottobre 2016 in un ristorante del centro città è il più significativo perché in quell’occasione Alvaro aveva siglato un «patto operativo» con Giuseppe Spagnolo (referente romano della cosca Farao-Marincola di Cirò) «per il controllo del pescato delle marinerie della costa ionica cosentina controllate dalla stessa cosca, per il monopolio presso il mercato Ittico di Roma/Guidonia e per la comune divisione dei ricavi».

Indizi e tracce di un sistema ancora tutto da svelare.

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