Dopo il picco avvenuto tra gennaio e febbraio, provocato dall’esplosione della nuova variante Omicron, i casi di Covid-19 erano progressivamente diminuiti fino a raggiungere un minimo, ma nelle ultime settimane in quasi tutti i paesi del mondo stanno risalendo in modo vistoso.

Per esempio, in Italia nel giro di una settimana i casi quotidiani di Covid sono passati da circa 15 a oltre 20 mila, e la Lombardia è la regione più colpita con un aumento sui sette giorni che ha sfiorato il 48 per cento: venerdì 7 giugno i nuovi positivi a Milano erano 1.095, quasi cinque volte in più rispetto al venerdì della settimana precedente (261). Sta arrivando l’estate, eppure l’epidemia da Covid riprende vigore? Perché? E soprattutto, dovremmo preoccuparci?

L’andamento stagionale non esiste

Illustri virologi da tv hanno più volte ribadito che il coronavirus ha un andamento stagionale e che con l’avvento dell’estate e delle alte temperature i casi diminuiscono fino a scomparire del tutto: ma non è vero. In paesi tropicali e subtropicali, come il Brasile e il Sudafrica, ondate epidemiche di Covid si sono verificate tanto in inverno quanto in estate, perché il virus della stagionalità se ne frega.

Certo, in linea teorica durante l’inverno nei paesi temperati come il nostro si verificano condizioni che favoriscono il propagarsi di un virus che si diffonde per via respiratoria come il coronavirus: noi tutti tendiamo a passare più tempo in spazi al chiuso e affollati, il clima è più umido, il che facilita il contagio da uomo a uomo.

Con l’estate i casi tendono naturalmente ad abbassarsi, perché noi tutti passiamo più tempo in spazi aperti e il clima è più secco, e i passaggio del virus da uomo a uomo è meno probabile, ma ciò non toglie che nuove ondate epidemiche possano avvenire anche durante la stagione calda, specie se entra in gioco qualche fattore nuovo, come per esempio l’arrivo di una nuova variante del virus che sfugga parzialmente all’immunità precedente.

Che è esattamente quel che sta accadendo ora: questo aumento dei contagi è provocato dalla diffusione della nuova subvariante di Omicron denominata BA.5. Solo pochi giorni fa BA.5 era responsabile dello 0,4 per cento dei casi di Covid, oggi del 15-20 per cento di essi, secondo stime affidabili.

La variante originaria di Omicron, chiamata B.1, era stata isolata per la prima volta in Sud Africa il 21 novembre dello scorso anno, e aveva provocato una pericolosa ondata epidemica globale; ad essa erano succedute una seconda grave ondata a marzo, provocata dalla nuova subvariante di Omicron denominata BA.2.

Poi, dall’inizio di quest’anno hanno cominciato a diffondersi due nuove subvarianti di Omicron, isolate per la prima volta in Sudafrica tra gennaio e febbraio e identificate con le sigle BA.4 e BA.5. Se BA.4 non ha avuto quasi nessun impatto, BA.5 va tenuta sotto osservazione.

Bisogna sempre ricordare che seppure le diverse subvarianti di Omicron provochino una malattia un poco più lieve rispetto a Delta, tuttavia esse sono molto più contagiose delle precedenti: un virus meno letale ma molto più contagioso alla fine può provocare più morti di uno più letale ma meno contagioso. A meno che, naturalmente, noi non siamo protetti dai vaccini.

La nuova subvariante BA.5 di Omicron, responsabile della ondata in corso, è ancora più infettiva delle precedenti di Omicron, già contagiosissime. BA.5 ha un R0 - cioè un numero basico di riproduzione, che indica quanti individui può contagiare in media ogni infetto da quel virus - molto elevato, pari circa a 20. Le varianti precedenti di Omicron avevano un R0 pari circa a 12-16. (Per darvi un’idea, la variante originaria cinese del coronavirus aveva un R0 pari a 3, e si è visto i danni che ha fatto).

Inoltre, i primi studi condotti da un gruppo di scienziati dell’Università KwaZulu-Natal, di Durban, in Sud Africa, guidati da Richard Lessells e Tulio de Oliveira mostrano che BA.5 è in grado di “evadere”, cioè di sfuggire parzialmente all’immunità acquisita grazie a infezioni precedenti o a tre dosi di vaccino, e questo spiega la risalita dei contagi.

Le caratteristiche

BA.5 ha acquisito queste sue caratteristiche di maggiore contagiosità e immuno-evasività rispetto alle altre sottovarianti di Omicron grazie a due mutazioni a livello della sua proteina Spike, la proteina che permette al virus di agganciarsi alle nostre cellule polmonari e contro la quale si dirige la risposta immunitaria dei nostri linfociti B e T. La prima mutazione è denominata L452R, il che significa che, nella lunga catena di aminoacidi che compongono a proteine Spike, l’aminoacido situato in posizione 452 - di solito una leucina- è sostituito da una arginina. 

Questa mutazione, già precedentemente rilevata nella variante Delta, si trova vicino al punto in cui la proteina spike si lega alle cellule umane, e migliora la capacità del virus di attaccarsi ad esse, rendendolo più contagioso. L’altra mutazione è chiamata F486V, il che significa che l’aminoacido situato in posizione 486 - di solito una fenilalanina - viene sostituito da una valina. Si trova anch’essa presso al punto in cui la proteina Spike si lega alle cellule umane, che poi è anche il punto a cui si attaccano gli anticorpi prodotti dai linfociti B e i linfociti T per neutralizzare il virus: se quel punto di attacco muta, naturalmente gli anticorpi e linfociti T riescono con maggiore difficoltà ad aggredirlo e ad ucciderlo.

Inoltre, secondo alcuni studi preliminari condotti da scienziati dell’Università di Tokyo, ma solo su criceti, la nuova subvariante BA.5 avrebbe la proprietà di formare sincizi, ovvero avrebbe la capacità di indurre la fusione di cellule polmonari infettate con quelle sane adiacenti, il che potrebbe aumentare la sua patogenicità a livello polmonare, e forse provocare una malattia più grave nell’uomo.

Infine, un recentissimo studio condotto da scienziati dell’Università di Oxford, dal titolo eloquente Fuga anticorpale delle subvarianti BA.4 e BA.5 della variante Omicron del SARS-CoV-2, che verrà a breve pubblicato sulla rivista scientifica Cell, dimostra chiaramente che BA.4 e BA.5 mostrano una capacità immunoevasiva superiore alle precedenti subvarianti di Omicron.

Gli studiosi hanno riunito un gruppo di individui che erano stati vaccinati con tre dosi dei vaccini AstraZeneca e Pfizer, oppure che erano stati infettati dalla variante BA.1 di Omicron, e hanno estratto da loro il sangue per valutarne le capacità di neutralizzazione della nuova variante BA.5, che sono basse in maniera preoccupante. Tradotto in parole semplici ciò significa che anche chi ha fatto tre dosi di vaccino e chi è stato infettato dalla variante B.1 di Omicron potrebbe non essere sufficientemente protetto contro una nuova infezione da variante BA.5. E questo spiega l’impennata recente dei contagi.

Per questi motivi, già lo scorso 13 maggio l’European Centre for Disease Prevention Control (Ecdc) aveva classificato BA.4 e BA.5 come Voc, ovvero “Variants of Concern”, cioè Varianti di Preoccupazione, da tenere sotto controllo. Secondo l’Ecdc, le nuove subvarianti non sembrano determinare una malattia più grave. Anche l’Organizzazione mondiale della Sanità scrive nel suo ultimo report che sulla base di evidenze scientifiche provenienti da diversi Paesi «non è stato osservato alcun aumento della gravità della malattia associata a BA.5 e BA.4».

Però, nelle prossime settimane o mesi il numero di casi potrebbe aumentare in maniera rilevante, e la situazione potrebbe peggiorare. La domanda chiave è: i vaccini ci proteggeranno a sufficienza?

Per ora, non sono disponibile dati provenienti dal mondo reale relativi alla protezione dei vaccini nei confronti della subvariante BA.5. Tuttavia sappiamo che, dopo sei mesi, il vaccini ora in circolazione, basati sul ceppo originario di Wuhan, hanno un’efficacia del 60 per cento contro l’infezione da Omicron, e circa dell’85 contro la malattia grave.  Ma in autunno, quando la protezione immunitaria garantita dal vaccino sarà ulteriormente diminuita, forse chi è anziano o debole dovrà sottoporsi ad un quarto richiamo, o forse ci vaccineremo tutti con un vaccino aggiornato, che potrebbe arrivare ai primi dell’anno prossimo.

Sempre ammesso che non nasca una nuova variante del coronavirus, più aggressiva e letale delle precedenti.

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