L’emanazione di una norma richiede di seguire un metodo preciso. Il legislatore deve definire il problema da risolvere e individuare l’obiettivo da conseguire, esaminando varie opzioni di intervento, comparando vantaggi e svantaggi. Una volta operata la scelta, va delineato un attendibile scenario del suo funzionamento, soprattutto dei suoi possibili esiti inattesi o indesiderati, sulla base dei dati disponibili.

Infine, occorre costruire indicatori quantitativi, oltre che qualitativi, che consentano di verificare il grado di raggiungimento dell’obiettivo. L’analisi dev’essere trasparente, per rendere conto delle decisioni ai destinatari. Questo metodo è stato seguito nel disciplinare il “green pass” sui luoghi di lavoro?

L’obiettivo del “green pass”

Dall’inizio della pandemia, il problema del governo è stato quello di contrastare la diffusione del virus. Dopo l’arrivo dei vaccini ciò si è tradotto nello sforzo di garantirne la somministrazione quanto più velocemente al più elevato numero di cittadini. Una volta messe in sicurezza le categorie a maggiore rischio, il governo ha reputato necessario il ricorso a uno strumento per spingere a vaccinarsi, e così ha prescritto l’uso della certificazione verde – a seguito di vaccino, tampone negativo o guarigione da Covid – in modo via via più esteso.

Lo strumento è stato costruito in funzione dell’obiettivo – indurre alle vaccinazioni – così che fare un tampone per ottenere il pass, pur costituendo un’opzione legittima, fosse più gravoso rispetto al vaccino. Tuttavia, il “disegno” dello strumento è carente. Innanzitutto, non è stato stabilito un indicatore quantitativo di risultato: in particolare, il numero minimo di vaccinazioni aggiuntive che si stimava di ottenere con l’introduzione del “green pass” nei luoghi di lavoro. Non si può presumere a priori che ogni vaccinazione in più valga i costi della misura. Altrimenti, si vanifica ogni valutazione preventiva, giustificando qualunque strumento, anche il più gravoso o inefficiente. Né è stato fissato il traguardo raggiunto nel quale la misura sarebbe decaduta, per esempio il raggiungimento di una certa percentuale di vaccinati.

Riguardo ai costi, non sono stati preventivamente stimati quelli che la misura avrebbe comportato, per esempio gli oneri per i datori di lavoro privati e pubblici, quindi anche per i contribuenti, a causa dei controlli dei pass; oppure i disagi alle attività economiche, produttive ecc. derivanti dalla sospensione dal lavoro dei “no-green pass” irriducibili.

Sul piano della fattibilità, inoltre, non è stata preventivamente valutata la capacità effettiva delle strutture sanitarie di processare il maggiore numero di tamponi necessari per ottenere la certificazione verde da parte dei lavoratori non vaccinati. A tutto questo serve l’analisi di impatto ex ante, cui il governo è tenuto anche quando si occupa della salute collettiva. Non esistono diritti “tiranni”, e il bilanciamento tra quelli costituzionalmente garantiti passa anche attraverso un’analisi di costi e benefici.

L’effetto del “green pass”

In mancanza di una analisi preventiva, e soprattutto senza la definizione di indicatori di risultato, chiunque può apprezzare la scelta di estendere la certificazione verde ai luoghi di lavoro, oppure sminuirla, adottando criteri diversi.

L’associazione indipendente Gimbe ha fatto una stima dei suoi effetti. Con il progressivo ampliamento dell’imposizione del “green pass”, e dopo l’annuncio dell’ultima estensione da parte del governo, il numero dei tamponi antigenici rapidi è aumentato del 57,7 per cento in un mese, attestando così indirettamente l’esistenza di una fascia di popolazione non intenzionata a vaccinarsi.

Viceversa, la media mobile a 7 giorni dei nuovi vaccinati, dai quasi 172mila del 12 agosto è progressivamente calata fino a quota 54mila il 10 ottobre. «La “spinta gentile” del green pass – ha commentato il presidente di Gimbe, Nino Cartabellotta – ha dunque avuto un’efficacia modesta nel contrastare l’esitazione vaccinale».

I fini variabili del “green pass”

Il governo ha introdotto il “green pass” per spingere a vaccinarsi, come detto, in quanto misura di salute pubblica. E allora ci si chiede perché gli oneri inerenti ai controlli gravino sui datori di lavoro, anziché sullo stato.

A settembre, con il decreto mediante cui il “green pass” è stato reso obbligatorio per lavorare, il governo ha qualificato tale strumento anche come misura di salute e sicurezza nei luoghi di lavoro. Ma, a fronte di questo cambiamento, non è cambiato il “disegno” dello strumento. In vista dell’obiettivo di indurre a vaccinarsi, è stata coerente la scelta del governo di non concedere tamponi gratuiti o particolari agevolazioni che potrebbero renderli preferibili rispetto alla vaccinazione.

Ma siccome con il citato decreto il certificato verde è divenuto presidio di sicurezza sul lavoro, allora i tamponi potrebbero essere forniti dai datori di lavoro ai lavoratori, come altri dispositivi a tutela della salute. Tuttavia, si obietta, in questo modo sarebbero disincentivate le vaccinazioni: e così si torna al “green pass” come misura di salute pubblica, con una confusione fra fini, mezzi e risultati.

Coerente con la salute e la sicurezza sul lavoro, invece, sarebbe stato un obbligo vaccinale “mirato” per i lavoratori più a rischio di infettarsi e infettare (già indicati in una circolare Inail dell’aprile 2020), così come disposto per medici e operatori sanitari nell’aprile scorso. Questa sarebbe stata un’opzione meno costosa per le imprese, non richiedendo gli adempimenti necessari per le verifiche del “green pass” e potendo essere gestita come accade da decenni per altre vaccinazioni obbligatorie.

Le decisioni “a qualunque costo” non sono mai quelle preferibili, come invece si potrebbe essere indotti a ritenere quando si tratta della salute individuale e collettiva.

L’analisi finalizzata alla scelta della soluzione più efficiente ed efficace, che massimizzi i benefici al minor costo, resta, invece, la base per tutto.

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