Ambrogio Beccaria è come l’oceano: ci affascina. «La paura del mare è una cosa molto italiana. Le spiagge sono piene, ma il mare è vuoto. Un mare docile. Al Nord è il contrario: spiagge vuote e mare pieno. Non bisogna avere paura del mare, né della parte selvaggia del pianeta». Sarà perché lui, milanese, 33 anni, enfant prodige della vela mondiale, ha imparato come ci si connette alle cose. E agli elementi, quel grande mistero.

Si definisce pigro. Ma anche libero: «La prima emozione è quella: il mare mi fa sentire non solo un essere umano sociale, ma anche un animale connesso a questo pianeta. È un posto libero. Mi sento parte di qualcosa di più ampio». E c’è davvero qualcosa di magnetico nella voce del velista italiano, impegnato con l’imbarcazione Allagrande Mapei alla The Ocean Race, la competizione oceanica più dura al mondo.

Dopo il terzo posto nella tappa di Nizza, l’equipaggio è entrato nel Porto Antico di Genova al primo posto. Era l’1.41, dopo 2 giorni 8 ore 41 minuti e 14 secondi di regata. «È stata una tappa magnifica, incredibile e mediamente molto ventosa. Quando speri di vincere e succede è davvero bello».

Da bambino in acqua ci entrava di spalle. Non voleva fare il velista, ma il pescatore sì. «Mi sono appassionato al mare molto in fretta e, quando vedevo in vacanza le persone che pescavano, mi sembrava un modo per diventare adulto giocando». Papà avvocato, mamma fotografa. L’estate al mare.

«Sono innamorati del mare, ma in modo molto italiano: contemplativo». Suo padre, very important avvocato milanese, gli regalò un fucile da pesca. «Non so come gli sia venuto». È il destino che ti viene a cercare. «Non mi hanno mai detto “pensa a qualcos’altro”, mi hanno sempre dato fiducia. E quando hai fiducia hai una forza incredibile: per quello li ringrazio».

Testimone privilegiato

Oggi Beccaria non è solo l’uomo che attraversa gli oceani o il primo italiano a vincere la Mini Transat. È anche un testimone privilegiato del mondo che muta, del clima che cambia, del pianeta che ci parla. «Siamo ottimi testimoni di quello che succede in mare. Nessuno ci passa tanto tempo quanto noi. Cito Spiderman: da grandi poteri derivano grandi responsabilità». Ironico, riflessivo, innamorato fisso. Del mare. «Che però sta sempre peggio. Ci stiamo facendo del male da soli: ogni giorno buttiamo in acqua una quantità incredibile di spazzatura, e la maggior parte affonda».

The Ocean Race, allora, diventa più di una competizione. È un osservatorio scientifico globale. A Genova durerà fino al 7 settembre. Laboratori, workshop, divulgazione. Per riflettere. E magari agire. Due anni fa le imbarcazioni raccolsero oltre 4,3 milioni di dati ambientali: temperature, salinità, ossigeno disciolto, microplastiche invisibili a occhio nudo.

Ci sono tanti progetti, dice Ambrogio, «abbiamo a bordo una macchina per campionare le microplastiche. Vedremo i risultati. Le nostre sono miglia donate alla scienza: possiamo usarle a doppio fine, anche per conoscere meglio il mare. L’unico modo per cambiare il rapporto con la natura è capire il pianeta e studiarlo. Ma non sta bene».

Microplastiche ritrovate

Allagrande Mapei è dotata di un microplastic sampler e da quando The Ocean Race è partita i rilevamenti sono costanti. Le concentrazioni più alte sono state rilevate vicino al Sudafrica e nel mare delle Baleari. «Fino a poco tempo fa la questione climatica sembrava al centro del dibattito, oggi l’abbiamo un po’ persa. Ma è una sfida che riguarda tutta l’umanità».

La scoperta più allarmante riguarda le dimensioni delle microplastiche: le tecnologie impiegate da The Ocean Race hanno rilevato particelle fino a 0,03 mm, dieci volte più piccole di quanto consentito. E più piccola è la plastica, più è pericolosa.

Quello che si vede. E quello che si incaglia nella vista e nel cuore. «Ormai in ogni regata si incastra qualche detrito di pesca o un sacco di plastica nella chiglia o nei timoni: è deprimente. E in alcuni posti il traffico navale è come in autostrada: uno pensa che il mare sia vuoto e invece ci sono zone completamente antropizzate».

Secondo i ricercatori, il 71 per cento delle particelle identificate erano microfibre: provengono da vestiti, lavatrici, asciugatrici, attrezzature da pesca, tessuti dismessi. Una catastrofe silenziosa. Anche per chi, come Ambrogio, solca le tempeste ed è costretto a cambiare strategie per colpa del climate change.

«Nell’ultima tappa, tutti i modelli meteorologici che abbiamo usato per la strategia avevano torto. Succede quando ci sono fenomeni poco prevedibili. Quando un temporale modifica le previsioni per due o tre giorni, ne capisci l’impatto». Il pianeta ci parla, qualcuno tenda l’orecchio per favore. «È casa nostra, l’unica che abbiamo, e ci preoccupiamo di problemi a corto termine. Ci sono tante cose che non abbiamo capito, ma questa è centrale: sentiamo poca empatia per la casa in cui abitiamo. È un pianeta vivo». Non dobbiamo averne paura.

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