Ha battuto Pep Guardiola e Arne Slot, gli ultimi due manager a vincere la Premier League, a Wembley. Ha conquistato due trofei, FA Cup e Community Shield, quando nei precedenti 120 anni di storia del club ne erano arrivati solo tre. Ha centrato sul campo un’incredibile qualificazione alla prossima Europa League (alla fine la squadra giocherà in Conference a causa dei criteri di multiproprietà imposti dalla Uefa, mentre al suo posto nella vecchia Coppa Uefa andrà il Nottingham Forest). Il tutto in soli tre mesi.

No, non è un supereroe né un alieno. È Oliver Glasner, l’allenatore austriaco che sta cambiando le sorti del Crystal Palace e l’uomo con una storia che è un esempio per tutti. Perché Glasner ha rischiato di morire, ma poi ha avuto la forza di ripartire da zero e arrivare al successo. Senza mai accantonare la sua passione più grande: il calcio.

In tre mesi la squadra di Garner ha battuto il City di Guardiola (in foto) e il Liverpool di Arne Slot, campione in carica in Premier League (foto Ansa/EPA)

Mai arrendersi al destino

La vita può cambiare da un momento all’altro. Lo sa bene Glasner, che ha speso i suoi 19 anni di carriera da calciatore al Ried. È il 31 luglio 2011 quando l’ex difensore esce da un forte contrasto, un testa a testa insieme a un avversario del Rapid Vienna, con una lieve concussione e un taglio sopra l’occhio. La botta sembra passare in fretta, lui continua ad allenarsi e qualche giorno dopo vola in Danimarca con la squadra per giocare la gara di ritorno di un turno di qualificazione di Europa League contro il Brøndby.

Il peggio arriva durante una delle ultime sessioni di allenamento prima del match. Glasner chiede a un membro dello staff di aiutarlo a provare alcuni colpi di testa perché vuole capire come avrebbe potuto reagire. Alla fine decide di rinunciare, non si sente a posto. Torna in hotel e improvvisamente un dolore allucinante gli esplode nel cranio. È un’emorragia cerebrale che richiede un intervento chirurgico immediato.

«A mia moglie avevano detto che le possibilità di vivere o morire erano 50-50», ha raccontato al Daily Telegraph l’anno scorso. Dopo l’operazione è costretto a smettere di giocare all’istante ed è qui che decide di non lasciarsi sopraffare dal destino, ma di reinventarsi fino a diventare un esempio cristallino di rivalsa.

Glasner prende una laurea in Business Administration, diventa amministratore delegato del Salisburgo e si lancia in panchina. Ried, Lask, Wolfsburg, Eintracht Francoforte. Ovunque vada lascia il segno, grazie a dei principi di gioco chiari e innovativi. Lo fa anche al Crystal Palace, dove è riuscito a spiegare le ali delle Aquile.

tattica ed empatia

A Londra, i tifosi si stanno godendo giorni mai vissuti prima. E potrebbero non aver finito di gioire ancora. Due trofei in tre mesi non sono arrivati per caso, ma grazie al minuzioso lavoro di analisi di ogni singolo avversario. È questa la prima qualità di Glasner come allenatore, uno che dopo aver perso 5-2 in campionato contro il Manchester City è andato in conferenza stampa a petto gonfio: «Ho detto a Guardiola che se ci ritroviamo non potrà riutilizzare questo sistema di gioco. Ne verremo a capo».

Detto, fatto. Un mese più tardi, in finale di FA Cup a Wembley, City e Palace si affrontano di nuovo, ma stavolta i londinesi giocano una partita sublime: assorbono alla perfezione il possesso palla dei Citizens e colpiscono in contropiede, arrivando a vincere il primo titolo “Major” della loro storia.

Attraverso lo studio metodico dell’avversario, Glasner ha saputo costruire una trappola anche per il Liverpool nel Community Shield di domenica scorsa. La vera forza dell’austriaco è però un’empatia fuori dal comune. I suoi calciatori sono prima di tutto esseri umani e lui prova a instaurare rapporti personali con ognuno di loro: «Sul campo notava le cose più piccole. In mensa era come un padre. Era interessato alle nostre storie e a comprenderci come persone», ha spiegato Kennedy Boateng, uno dei suoi ex atleti, a The Sun Sport.

Glasner cerca di insegnare ai suoi giocatori, specialmente ai più giovani, a non aver paura di niente, a buttarsi sempre. Perché la vita è un dono prezioso, va vissuta fino in fondo e nessuno lo sa meglio di chi è andato a un passo dalla morte. Il pallone, dopotutto, è una cosa secondaria.

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