«Nonostante lo sforzo....il film va in onda in forma completa....», dice uno degli indagati, Angelo Bruno, a Pasquale Colucci, dirigente aggiunto della polizia penitenziaria. Il primo è finito in un carcere militare, il secondo ai domiciliari nell’inchiesta, condotta dalla procura di Santa Maria Capua Vetere. Colucci risponde alla comunicazione del sottoposto con una faccina terrorizzata. Il messaggio è presente nei cellulari sequestrati dagli investigatori e il film al quale si fa riferimento sono i video che gli investigatori, i carabinieri di Caserta, sono riusciti ad acquisire «nonostante lo sforzo». Lo sforzo è il tentativo di evitare il sequestro per occultare quanto avvenuto il 6 aprile 2020 nel carcere di Santa Maria Caputa Vetere “Francesco Uccella”.

L’«orribile mattanza», come l’ha definita il giudice Sergio Enea, è invece stata documentata proprio da quelle immagini che stanno facendo il giro del mondo, ma che rappresentano non solo l’evidenza del massacro, ma anche l’architrave dell’inchiesta giudiziaria.

Montaggio di Carmen Baffi

Lo dice chiaramente il giudice Enea nell’ordinanza di custodia cautelare: «L’acquisizione delle immagini del circuito di videosorveglianza del carcere ha consentito di acquisire prova piena e inconfutabile delle violenze perpetrate ai danni dei detenuti sammaritani in occasione della perquisizione del 6 aprile». Di più, il giudice chiarisce che «la visione per intero di tali immagini costituisce presidio di conoscenza ineludibile per chi voglia comprendere appieno cosa è accaduto in quel frangente».

Nella costruzione dell’inchiesta, i video hanno rappresentato la prova regina perché hanno consentito, sentendo i detenuti pestati, di identificare i soggetti e avviare i necessari riscontri per quanto accaduto il 6 aprile. Quel giorno 283 agenti della polizia penitenziaria hanno partecipato alla caccia ai detenuti, una repressione furiosa, contro persone disarmate e inermi. Gli agenti arrivano da altri istituti di pena, sono i gruppi operativi speciali, voluti e diretti dal provveditore regionale Antonio Fullone. Fullone è indagato per i maltrattamenti e per depistaggio, rimasto in servizio (ora sospeso così come gli altri 51 raggiunti di misure interdittive) fino a lunedì scorso, giorno della mega operazione dei carabinieri di Caserta. I video pubblicati da Domani confermano l’orribile mattanza.

Gli agenti picchiatori vengono ripresi dalle telecamere di sorveglianza, immagini recuperate grazie alla prontezza dell’inchiesta giudiziaria e all’operazione dei carabinieri, immagini che dovevano sparire secondo gli auspici degli indagati. Un pezzo di stato che indaga su un altro pezzo deviato e infetto. Segno che gli anticorpi funzionano, esempio di una magistratura, quella di Santa Maria, e di una polizia giudiziaria che onorano la Carta costituzionale. Ma come è stato possibile salvare i video che compongono il film dell’orrore?

Il sequestro dell’impianto

La sera dell’8 aprile il garante dei detenuti campano, Samuele Ciambriello, invia una missiva dettagliata dopo aver parlato con i familiari dei detenuti, alcuni dei quali si erano rivolti al garante napoletano, Pietro Ioia. L’indagine, coordinata dalla procura guidata da Maria Antonietta Troncone, dall’aggiunto Alessandro Milita (pm Daniela Pannone e Alessandra Pinto) parte subito grazie alla prontezza dei carabinieri. In questo modo gli inquirenti evitano ogni tipo di occultamento delle prove, tentativi di depistaggio che comunque saranno realizzati con falsificazione di foto, referti, verbali e informative.

Poche ore dopo i militari dell’arma sono già nel carcere per acquisire i video del circuito di sorveglianza. La celerità dell’azione sorprende gli indagati. All’arrivo dei carabinieri, il personale penitenziario evidenzia l’impossibilità di operare sull’impianto in assenza di personale tecnico. I carabinieri non si fermano e si presentano con un ausiliario tecnico delegato per estrapolare i video, ma anche questo tentativo si interrompe. Così i carabinieri procedono «opportunamente al sequestro dell’intero impianto», scrive il giudice Enea. Vengono chiusi a chiave gli armadi con i video all’interno.

È l’11 aprile 2020, neanche una settimana dopo i fatti. Tre giorni dopo, l’ausiliare entra, apre gli armadi e acquisisce tutte le immagini. Mancano le immagini relative al piano terra e al quarto piano del reparto Nilo. La tempestività coglie di sorpresa la catena di comando del massacro di stato. I tentativi di depistaggio però riguardano anche i video e scattano qualche giorno dopo. In particolare vengono manipolati spezzoni di filmati, falsificando la data di realizzazione.

Alcuni episodi di protesta avvenuti il 5 vengono datati 6 aprile, un insulso modo per trovare giustificazioni alle violenze, ma gli inquirenti con il riscontro degli originali scoprono anche questo pezzo del depistaggio di stato. Così il 12 aprile gli indagati scaricano Gaetano Manganelli, il commissario coordinatore, perché non si è accertato dello spegnimento delle telecamere prima dell’irruzione. «È partito senza accertarsi», con la conclusione: «pagheremo tutti».

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