Nel prossimo bilancio settennale 2028-2034, l’Unione europea intende legare l’erogazione degli aiuti allo sviluppo per i Paesi africani ai risultati concreti nella riduzione dei flussi migratori verso l’Europa.

Lo rivela un documento interno della Commissione anticipato dal quotidiano Politico, che mette nero su bianco una condizione che di fatto trasforma l’Africa in un avamposto esternalizzato della frontiera europea: niente fondi a chi non blocca le partenze.

La svolta è formale. Il lessico parla di “approccio incentivante” e “allocazione flessibile dei finanziamenti” ma il significato è semplice: stop ai trasferimenti se i numeri degli arrivi non calano. L’Ue rompe così con il principio di aiuti non vincolati e sposa un modello già adottato da Stati Uniti e Regno Unito, dove l’aiuto estero è subordinato agli interessi interni.

Questa nuova dottrina, che dietro la retorica del partenariato cela logiche securitarie, si inserisce perfettamente nel quadro del Piano Mattei promosso dall’Italia.

Presentato come “alleanza per lo sviluppo” il Piano è stato già criticato da analisti e ong per essere un assemblaggio di progetti preesistenti finalizzati più a garantire accesso a risorse energetiche e a mercati strategici che a rimuovere le “cause profonde” della migrazione.

La selezione dei Paesi pilota lo conferma: molti non sono né Paesi di origine né di transito rilevanti per le rotte migratorie ma sono partner energetici di Roma.

A smentire definitivamente la retorica dello sviluppo “win-win” è il caso della Libia, ormai laboratorio avanzato del ricatto migratorio.

Lo ha dimostrato il respingimento del ministro Piantedosi e di altri membri della delegazione Ue all’aeroporto di Bengasi, l’8 luglio scorso. Il governo della Cirenaica, controllato dal generale Haftar, li ha dichiarati “persone non gradite” per presunta violazione della sovranità. La Commissione europea ha parlato di “problemi di protocollo” ma è chiaro che si tratta di un messaggio politico: niente cooperazione senza compensazioni concrete.

Del resto lo stesso Haftar, oltre al governo di Tripoli, è stato per anni uno dei principali interlocutori della politica europea di esternalizzazione. Con il Memorandum del 2017, firmato dall’allora ministro dell’Interno Marco Minniti con, l’Italia ha finanziato la cosiddetta Guardia costiera libica, nonostante le accuse di collusione con i trafficanti e gli abusi nei centri di detenzione.

I fondi sono proseguiti per anni, con governi di diversi colori, alimentando un’economia della migrazione in cui i flussi sono merce di scambio e i migranti diventano strumenti di pressione. A beneficiarne sono stati non solo il Governo di unità nazionale di Tripoli ma anche l’Esercito nazionale libico di Haftar che controlla la Libia orientale.

Solo qualche settimana fa, il 13 giugno, il figlio dell’uomo forte della Cirenaica, Khalifa Haftar ha incontrato a Roma il capo di Stato maggiore della Difesa, generale Luciano Portolano, il capo di Stato maggiore della Marina militare e ministri Crosetto e Piantedosi. Ora quelle relazioni sono interrotte.

La Libia utilizza la stessa leva per umiliare e condizionare l’Europa. La Commissione, pur dopo il clamoroso incidente diplomatico, ha confermato la volontà di mantenere aperto il dialogo “con tutti gli attori coinvolti” e ha continuato i colloqui tecnici a Tripoli. Ma la frammentazione del potere libico e la complicità passata con attori locali compromessi rendono questa apertura un atto di debolezza, più che di diplomazia.

L’episodio di Bengasi mostra quanto il modello dell’esternalizzazione si fondi su basi instabili e ricattabili. I Paesi africani, ben consapevoli della centralità strategica che l’Europa assegna alla riduzione dei flussi, si stanno trasformando in interlocutori sempre più esigenti. I governi europei chiedono controllo in cambio di denaro ma non possono più dettare le condizioni.

Chi, come l’Italia, prova a presentare il Piano Mattei come una cornice cooperativa, si trova a fare i conti con la realtà: sono i partner africani, oggi, a decidere se – e soprattutto quanto – collaborare.

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