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Il franchising della pizza napoletana le ha fatto perdere l’anima

  • Lasciando stare l’ormai trita polemica sulle vere origini della pizza, non si può negare che l’immaginario mondiale del disco lievitato sia connesso all’Italia, e in particolare a Napoli. Basta guardare i nomi delle pizzerie più apprezzate all’estero: è tutto un Peppina e Luigia, Pasquale e Angelina, Forcella e Bufalina, Mamma di qua e Mamma di là.
  • Ma è solo da dieci anni a questa parte che i marchi storici della pizza napoletana si sono trasformati in catena ed espansi in Italia e nel mondo: parliamo di un movimento vasto ma le cui punte di diamante sono tre, Michele, Sorbillo e Starita.
  • La domanda è: funziona? La pizzeria storica napoletana riesce a farsi catena senza snaturarsi? Senza perdere quell’aura di autenticità e genuinità, quella magia di cui gli stessi marchi si fanno vanto?

Ad agosto di quest’anno si è diffusa la notizia che Domino’s chiudeva la sua ultima sede in Italia. In molti si sono chiesti perché c’era Domino’s in un paese come il nostro. La catena di pizzerie d’asporto statunitense era in crisi da tempo, e non per effetto del boom del delivery innescato dalla pandemia, ma perché non è mai davvero decollata. Lo dice il numero di sedi che avrebbero voluto essere operative, 880, rispetto a quelle effettivamente aperte, 29 dopo ben cinque anni. Negli ultimi de

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