All’uscita delle prime puntate de Gli Anelli del Potere, la serie ispirata ai libri di Tolkien che non è stata accolta con entusiasmo dal pubblico, le recensioni sono state bloccate per evitare commenti negativi di troll e fan inferociti. Il giorno in cui Netflix ha rilasciato la nuova stagione di Chef’s Table dedicata alla pizza, invece, non si è mosso granché.

Eppure la serie ideata da David Gelb, pur rimanendo un prodotto di altissima qualità, mostra uno scarso interesse per l’aderenza storica. Nell’episodio dedicato alla pizza in teglia, in particolare, l’origine della ricetta è raccontata in modo frettoloso e con tagli grossolani sugli interventi dei protagonisti.

Lo storico prodotto è stato definito banalmente “junk food”, ovvero cibo spazzatura, facendo riferimento ai decenni che hanno preceduto l’arrivo dei pizzaioli contemporanei, come Gabriele Bonci, che hanno rinnovato impasti e prodotti. Ma in realtà la storia della pizza in teglia, fuori dalle dicerie, è ancora tutta da scrivere. Sostenere che “prima” era cibo spazzatura e dopo non lo è più stato è sbagliato.

La forza di questa pizza è stata quella di guadagnare in poco tempo una fama eccezionale che ha valicato i confini della città e che difficilmente è stata considerata un cibo di bassa qualità. A Roma, agli inizi del secolo scorso, non c’era ancora la pizza in teglia, ma la pizza alla pala nata all’interno dei panifici, stesa su una lunga pala di legno e cotta su pietra. Le due tipologie hanno corso su binari separati tranne che per le modalità di vendita, al peso e non al pezzo. La terza tipologia della capitale è la tonda romana, bassa e croccante stesa al mattarello.

La storia della teglia

A differenze delle altre tipologie, delle prime pizzerie al taglio si sono perse le tracce. L’origine va rintracciata nei primi anni Sessanta quando diversi panificatori ternani arrivarono a Roma, dove cominciarono a maneggiare nelle rosticcerie un impasto con strutto, sale e lievitazioni brevi.

A testimoniarlo c’è Elio Castelli, che gestisce una ditta che realizza forni elettrici per la pizza in teglia. «Gianni Giovi, Michele Checchi, Lino Tedeschi sono stati i precursori», dice Castelli. «Si dice che cominciarono manipolando gli spezzoni di pasta che rimanevano dal pane. Adoperavano delle teglie enormi, perché allora le uniche pizze che si facevano erano la bianca e la rossa, e ne vendevano una marea. La margherita venne dopo perché la mozzarella costava». La pizza in teglia divenne subito popolare, nel giro di dieci anni aprirono molte insegne.

Nel 1971 il padre di Giancarlo Casa, proprietario della pizzeria La Gatta Mangiona, ha convertito il suo negozio di alimentari vicino alla stazione Termini in una pizzeria. «A quel tempo non ci capivamo niente di impasti, eppure mio padre già metteva il San Marzano sulla pizza», dice. Erano cultori della materia prima, il nonno di Casa ha portato negli anni Venti il fiordilatte a Roma e la mozzarella di bufala negli anni Cinquanta. Di lì a pochi anni, era il 1979, a Trastevere fu aperta una pizzeria (erroneamente chiamata Venanzio con la “i”) da Alvaro e Venanzo Sisini, un indirizzo che nel tempo ha mantenuto la sua facciata originale.

Nel 1986 i fratelli sono arrivati a Re di Roma, uno dei quartieri di via Appia nuova, con una seconda pizzeria dove, spiega Antonio Paduano, responsabile ricerca e sviluppo, per scelta sul banco non si trovano più di otto teglie per volta, ma vengono sfornate in continuazione come si faceva prima.

L’ipotesi di Anzio

Recentemente però il sito Il Gusto ha riportato una nuova versione secondo cui la pizza in teglia sarebbe nata da Renata Pollastrini ad Anzio alla metà degli anni Quaranta. Lo racconta Beniamino Colantuono, suo nipote, ricordando che già negli anni Venti, prima della guerra, la nonna preparava la pizza per venderla a pezzi sulla spiaggia. E in effetti tra Anzio, Lavinio e Nettuno la cultura della pizza in teglia è tutt’ora molto diffusa. Tornando alla versione prevalente, quella dei ternani sarebbe stata la prima generazione di pizzaioli in teglia.

Negli anni Ottanta arrivano gli interventi sull’impasto di Angelo Iezzi, considerato un precursore della moderna pizza in teglia. Quando era ragazzino la teglia era già diffusissima, «dove abitavo io, su viale Eritrea, ce n’erano tre. La mattina facevamo la fila per prendere la nostra strisciolina prima di andare a scuola».

La pizza moderna

Erano gli anni Settanta e la pizza veniva fatta con strumenti casalinghi, impastata a mano nelle bacinelle in cui si lavano i panni e pesata su bilance ad ago. Il risultato era buono al palato, ma risultava poco digeribile e altamente calorico. Iezzi lavorò sugli impasti, prolungando la maturazione, aggiungendo acqua fredda, diminuendo il lievito e sostituendo lo strutto con l’olio d’oliva.

La sua fucina è stata la pizzeria Angelo e Simonetta, che ha aperto nel 1987 con la moglie (a settembre di quest’anno, dopo 35 anni, l’attività ha chiuso). Il suo merito è stato non solo quello di essere intervenuto sul prodotto, ma anche di aver diffuso il sapere, con la creazione nel 1989 dell’Associazione italiana pizzaioli (Api), tutt’ora esistente, dove si fa formazione. Il primo corso si è svolto nel 1992 presso il Papero Giallo, storica rosticceria in zona San Giovanni, alla presenza di nove allievi.

L’arrivo di Bonci

In Chef’s Table viene raccontata l’èra contemporanea della pizza in teglia, collocata nei primi anni Duemila con l’apertura di Pizzarium. Il lavoro del pizzaiolo-proprietario Gabriele Bonci, oggi molto conosciuto in città, fu essenziale per restituire alla pizza il suo volto contemporaneo, andando di pari passo con l’esplosione del mondo del cibo.

Chef’s Table dice bene quando riporta che Bonci ha introdotto una vera e propria rivoluzione della materia prima, portando prodotti scelti da artigiani e non dall’industria, comprese le farine, che fino a quel momento erano quasi sempre state dei mix creati ad alta performatività. Con Bonci si parla di pasta madre (il lievito ricavato con farina e acqua), di agricoltori locali, di farine macinate a pietra. «A me della pizza in sé non me ne importa niente. È solo un mezzo per arrivare a un pensiero: mangiare è un gesto agricolo», ha detto il pizzaiolo.

Bonci non ha tenuto corsi professionali, ma è riuscito comunque a creare “una scuola di pensiero” intorno alla pizza in teglia. Una generazione di pizzaioli si è formata nel suo laboratorio, divorando le puntate dei suoi show e i suoi libri. Questi pizzaioli hanno un volto completamente diverso: molti ignorano cos’era la pizza in teglia quando nacque, ma maneggiano con consapevolezza tutti gli stili.

Sara Longo nel suo Pizza Chef, un locale in zona Tuscolana, dice di aver cominciato per fare cose molto diverse dalle versioni tradizionali, come la comunissima pizza con le patate: «Volevo fare una pizza che non ungesse le mani, che non avesse l’odore di olio esausto». Intanto la teglia è diventata un prodotto che si serve anche al ristorante, su un piatto, in piccoli quadrati da degustazione. Chef’s Table, però, non lo racconta. Un passaggio su cui fare chiarezza, come detto, è quello in cui si dice che prima di Bonci, e della sua rivoluzione, la pizza era considerata solo junk food. In effetti le pizze in teglia “di una volta”, fatte con tanti grassi e prodotti casuali, non erano evolute come quelle di oggi.

Ma affermare che fossero junk food è una forzatura, un racconto parziale di una tradizione molto profonda, poiché il termine è estrapolato proprio dall’ambiente in cui Chef’s Table è stato concepito: negli Stati Uniti la pizza, associata a grandi catene come Pizza Hut, viene spesso considerata “spazzatura”. In Italia il prodotto, invece, è recepito in modo completamente diverso. La storia della strisciolina di pizza acquistata prima di entrare a scuola, o al termine delle partite di calcio al parco, è comune a tante famiglie che pensavano che la pizza in teglia fosse stata inventata nella pizzeria che avevano sotto casa.

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