Impedito lo sbarco a Genova o La Spezia di tre container destinati a Israele. Il sindacato USB ha indetto uno sciopero di 24 ore per il 5 agosto contro il traffico di armi. È l’ultima tappa di una mobilitazione che, partita mesi fa, coinvolge lavoratori in Grecia, Francia, Germania e Nord Africa: «I lavoratori non sono ingranaggi ciechi della macchina bellica». L’obiettivo è fare dei porti spazi civili
Il container era lì, in rada, davanti a La Spezia, pronto a entrare nei circuiti di una logistica dove la frontiera tra civile e militare è sempre più opaca. Tre container, secondo le segnalazioni del sindacato greco ΕΝΕΔΕΠ del porto del Pireo, contenenti materiale bellico della compagnia Evergreen. Carico destinato – come in altri episodi documentati – a Israele, con ogni probabilità alla Israel Military Industries.
Era già successo a Marsiglia, dove lo scorso giugno i lavoratori francesi bloccarono 14 tonnellate di componenti per mitragliatrici Negev. Era successo a Montichiari, dove lo sciopero all’aeroporto civile di Brescia fermò l’imbarco di missili diretti al Qatar. Stavolta, il passaggio è toccato all’Italia. Ma l’Italia ha risposto.
USB Genova ha proclamato uno sciopero di 24 ore a partire dalle 22 del 4 agosto 2025. Il terminal coinvolto è il PSA di Genova Pra’, hub cruciale della logistica mediterranea. L’obiettivo, dichiarato, è «difendere l’ordine costituzionale e la sicurezza collettiva» – in riferimento all’articolo 11 della Costituzione (“l’Italia ripudia la guerra”) e all’articolo 2, comma 7, della legge 146/1990, che esclude le astensioni a difesa della Costituzione dalle limitazioni imposte agli scioperi nei servizi pubblici.
Carico rispedito indietro
Ma questa volta la mobilitazione ha bruciato le tappe. Il 31 luglio i portuali del collettivo Calp, insieme all’Unione Sindacale di Base, hanno annunciato che i tre container non sarebbero stati sbarcati né a Genova né a La Spezia. La compagnia Evergreen ha deciso di farli rientrare direttamente verso l’Estremo Oriente, dove erano stati inizialmente caricati. Nessuno sbarco, nessun carico. Un blocco preventivo, senza nemmeno bisogno di incrociare le braccia. Un risultato concreto dell’azione sindacale e della pressione esercitata nei mesi precedenti.
Non è un gesto isolato. La protesta del 5 agosto è l’ultimo episodio di una campagna più ampia, “Il lavoro ripudia la guerra”, con cui USB ha scelto di costruire un nuovo fronte sociale. L’obiettivo non è solo bloccare singole navi o spedizioni, ma affermare un principio politico: i lavoratori non sono ingranaggi ciechi della macchina bellica. Possono decidere, possono rifiutarsi di partecipare, possono difendere la legalità laddove le istituzioni tacciono o derogano.
Il fronte, del resto, è più ampio di quanto si pensi. In Francia, Germania e Nord Africa, le azioni coordinate – presidî, scioperi, obiezioni di coscienza – costruiscono una rete di monitoraggio e interdizione alternativa a quella degli stati. A Genova, il 25 settembre 2025, si terrà l’assemblea internazionale dei portuali, con l’obiettivo di lanciare uno sciopero europeo d’autunno.
Nel frattempo, il porto diventa luogo di conflitto. A luglio, davanti al Comune di Genova, un presidio ha chiesto che le autorità locali dichiarino ufficialmente i porti liguri “off limits” per le spedizioni belliche. Una richiesta politica, accompagnata dal sostegno della diocesi e della società civile. Non è più solo lotta sindacale, ma campagna pubblica per riconquistare lo spazio urbano e logistico alla collettività.
Il confronto è anche legale. Al centro la contestazione della Commissione di Garanzia sugli scioperi che ha tentato di assimilare le operazioni su carichi militari a “servizi essenziali”. Una forzatura giuridica che USB respinge con una motivazione precisa: la legge 146/1990 tutela la salute, la sicurezza, l’istruzione, non il profitto delle industrie belliche. Anzi: proprio l’articolo 2 della legge invocata dalla Commissione conferma la piena legittimità dello sciopero, se finalizzato a tutelare la Costituzione.
Accanto a questo c’è la legge 185/1990 che vieterebbe l’esportazione e il transito di armamenti verso paesi in guerra o responsabili di gravi violazioni dei diritti umani. Una norma sistematicamente aggirata, come dimostrano le indagini di Weapon Watch: spedizioni camuffate da merci civili, porti civili usati per traffici militari, autorizzazioni rilasciate con discrezionalità opaca. In questo vuoto normativo i lavoratori si assumono il compito di applicare la legge. Rifiutano di collaborare. Si oppongono.
Il lavoro non è complice della macchina bellica
La rivolta dei portuali italiani è, in definitiva, una proposta. Una proposta radicale, concreta, fondata sulla pratica quotidiana. Rimettere i corpi nei luoghi dove la guerra si traveste da routine. Rivendicare che il lavoro non sia complice. Trasformare il porto – simbolo della globalizzazione economica – in uno spazio di conflitto politico. Il tutto con una coerenza rara: niente slogan vuoti, nessuna delega, solo atti.
Per i lavoratori non si tratta più solo di fermare una nave, ma di riscrivere le regole. I portuali non aspettano la riforma: la praticano. Non chiedono che lo stato rispetti la Costituzione, ma si comportano come se quella Costituzione fosse già pienamente in vigore. La declinano nei fatti, nel momento esatto in cui l’Europa spinge per un riarmo da 800 miliardi e chiede all’Italia di aumentare la spesa militare del 5 per cento del Pil entro il 2035.
Lo sciopero del 5 agosto è un precedente. E come tutti i precedenti è una minaccia (bianca) per chi vuole normalizzare la guerra. Da oggi chi vuole far passare armi nei porti italiani sa che dovrà fare i conti con chi scarica container ogni giorno. E che il conflitto, quello vero, non sempre passa dalle armi: a volte basta un gesto di rifiuto. Una gru ferma. Un porto chiuso. Una nave che torna indietro.
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