Il primo troncone del processo “Rinascita Scott si è concluso con 70 condanne e 19 assoluzioni con il rito abbreviato.

La procura della Repubblica di Catanzaro retta da Nicola Gratteri ha visto e confermato l’impianto accusatorio di un’operazione molto vasta con centinaia di imputati ancora sotto giudizio. Il processo non è concluso in tutti i suoi aspetti, e tuttavia è possibile avanzare alcune considerazioni sull’importanza della sentenza e sul contesto in cui è maturata.

Il cuore dell’inchiesta è la famiglia Mancuso, originaria di Limbadi, un piccolo comune in provincia di Vibo Valentia, i suoi alleati e i suoi avversari che oggi siedono, tutti, sui banchi degli accusati. Per comprendere chi siano stati, e chi sono ancora oggi i Mancuso e il potere che hanno esercitato, bisogna necessariamente partire dal capostipite, Francesco Mancuso, un singolare personaggio che prima di diventare ‘ndranghetista aveva una passione per la politica. Passione che non abbandonerà mai.

Fino al 1973 è iscritto al Pci del suo paese. In quell’anno i dirigenti locali e provinciali, che avevano compreso la caratura criminale di quell’iscritto, gli hanno negato la tessera. Ha continuato, però, a interessarsi di politica.

Dopo una “cotta” per la Dc ha deciso di mettersi in proprio e, nel 1983, si è candidato capolista in una lista civica da lui patrocinata. Primo degli eletti, sarebbe stato eletto sindaco se non fosse intervenuto il presidente Sandro Pertini a sciogliere il consiglio comunale perché Mancuso, dopo la sua candidatura, s’era reso irreperibile a seguito di una decisione del tribunale di Catanzaro che gli aveva inflitto quattro anni di confino. Un sindaco latitante era davvero troppo per un uomo con la storia del presidente della Repubblica.

Appalti e milioni

Mancuso diventa criminalmente noto durante la costruzione del V centro siderurgico di Gioia Tauro. È lui che trova la cava che fornisce il materiale necessario. Ha “convinto” i proprietari a cedergli i terreni, ma erano serviti tanti soldi: 300.000 milioni di lire dell’epoca. Una bella somma. Come li aveva trovati lui che, fino al 1952, era stato un pastore (così diceva) e per di più analfabeta?

Nel corso del “processo ai sessanta” aveva risposto che 70.000.000 li aveva avuti in prestito da Gioacchino Piromalli, sulla parola, senza che lo stesso avesse «preteso alcuna garanzia». Piromalli era il capo supremo della ‘ndrangheta di allora. Altri 40-50.000.000 li aveva ricevuti, sempre in prestito, dai Rugolo e dai Mammoliti di Castellace: cosche molto potenti, ieri come oggi. La rimanente somma di 150.000.000 aveva detto di non ricordare da chi l’avesse avuta in prestito. Le sue parole disegnavano i rapporti, allora di subalternità, con la blasonata ‘ndrangheta della provincia di Reggio Calabria.

Da allora la sua ascesa criminale è stata inarrestabile, favorita dal fatto di poter contare su un numero davvero grande di familiari che, anche se non tutti, partecipano alle attività illegali del capostipite che mira ad arricchirsi ma anche a comandare, decidendo le sorti economiche e persino quelle politico-amministrative dell’intera provincia vibonese.

Partendo dalla pratica tradizionale delle mazzette, delle estorsioni, degli abigeati, la ‘ndrina si è allargata ed è diventata sempre più potente acquisendo, negli anni, il controllo di settori vitali dell’economia della città di Vibo Valentia e dell’intera provincia, ed entrando anche nel mercato degli stupefacenti. Un controllo asfissiante dell’economia che ha penalizzato gli operatori economici, sottraendo ricchezze e impedendo uno sviluppo ordinato e sereno dell’intera area.

La ‘ndrina si muove sul territorio con abilità e spregiudicatezza perché entra in contatto con tutti i mafiosi dei singoli comuni, li porta sotto la sua orbita, tesse alleanze, e quando ci sono divisioni e dissensi nelle varie realtà criminali cerca di mediare. Fallita l’opera di mediazione si schiera con il più forte.

Nei comuni sono via via cambiati i rapporti del potere criminale, si sono disaggregati e riaggregati vari raggruppamenti, nuove leve hanno sostituito quelle vecchie. Niente è rimasto immobile in questi decenni di dominio dei Mancuso.

Il potere mafioso è stato agevolato da una serie di circostanze. Innanzitutto dal fatto che era diffusa l’idea che la ‘ndrangheta fosse presente solo in provincia di Reggio Calabria e toccasse marginalmente le altre province. Nella magistratura di Vibo Valentia c’era la convinzione che tutto il vibonese fosse un’isola felice, che la ‘ndrangheta non esistesse.

Tracce di massoneria

BALTI TOUATI MOURAD

Il merito di richiamare l’attenzione su ciò che stava succedendo è stato della magistratura di Catanzaro. A cominciare dal giudice Salvatore Trovato che nel 1986, per primo, ha messo sotto accusa Francesco Mancuso delineandone la caratura criminale e i collegamenti ampi di cui godeva. Da allora altri suoi colleghi si sono mossi lungo la strada da lui tracciata.

Nella rete dei Mancuso molto importati sono i collegamenti con agguerriti e preparati colletti bianchi ma, soprattutto, con il mondo della politica che sono stati costruiti comune per comune individuando le persone adatte, gli uomini da sostenere con il voto. Sono stati tanti, troppi, gli uomini politici eletti con i voti mafiosi, anche se per fortuna sono stati tanti quelli che si sono opposti, a cominciare dal comune di Limbadi dove, ad esempio, sono stati eletti due sindaci che non a caso provenivano dalla storia del Pci.

Ma una ‘ndrina con queste caratteristiche aveva necessità di espandersi innanzitutto territorialmente spostando propri uomini in varie regioni del nord e all’estero, e poi soprattutto tessendo rapporti con criminali legati alla massoneria deviata che a Vibo città è storicamente molto forte sin dai tempi del Risorgimento.

Rapporti talmente solidi da far dire a Pantaleone Mancuso, detto Luni: «La ‘ndrangheta non esiste più! Una volta, a Limbadi, Nicotera, Rosarno c’era la ‘ndrangheta! Adesso la ‘ndrangheta fa parte della massoneria, diciamo è sotto la massoneria. Ha però le stesse regole! La ‘ndrangheta non c’è più è rimasta la massoneria e quei quattro storti che ancora credono alla ‘ndrangheta!».

I padrini di Reggio

È questo il contesto storico entro cui è si è mossa l’attività investigativa dell’inchiesta “Rinascita Scott” che riunisce una serie di attività pregresse. Ma per comprendere fino in fondo i possibili sviluppi occorre far riferimento a due questioni di straordinaria importanza.

La prima è la collocazione dei Mancuso e dei loro sodali all’interno della ‘ndrangheta che il processo “Crimine”, nato da un’intuizione della procura della Repubblica di Reggio Calabria all’epoca retta da Giuseppe Pignatone, ha mostrato essere un’organizzazione unitaria (su questo punto lo stesso Pignatone è stato oggetto di critiche interessate e ingiustificate). Il collegamento con il “Crimine” di san Luca dà forza, prestigio, carisma e affidabilità criminale ai Mancuso e li eleva al rango di ‘ndrangheta di primo livello.

La seconda questione è relativa ai collaboratori di giustizia che negli ultimi tempi sono aumentati sia a Catanzaro che a Reggio Calabria. Bisognerà ritornare su quest’argomento per cercare di capire le ragioni e la portata del fenomeno.

Per adesso si può dire che i collaboratori sono cresciuti anche per la conflittualità interna alle varie ‘ndrine locali e persino nel cuore degli stessi Mancuso che non sono più uniti come prima e si presentano più deboli.

In questi ultimi tempi sono in tanti a dire che c’è bisogno di una maggiore attenzione verso il processo “Rinascita Scott”. È vero, ma con un’avvertenza: “Rinascita Scott” non ha cancellato la ‘ndrangheta del vibonese. Se seguiranno condanne definitive sarà un colpo formidabile.

Ma nel frattempo i mafiosi si stanno riorganizzando e stanno cercando di ricostituire le fila sostituendo i vecchi politici con i nuovi, ancora più moderni e spregiudicati. Ecco, l’attenzione dobbiamo averla anche su questi fatti che rappresentano il presente e il futuro della ‘ndrangheta vibonese. Per non essere presi alla sprovvista.

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