Quello che veniva considerato uno dei totem dell'antimafia più intransigente è stato spazzato via da una sentenza. Un verdetto di assoluzione che cancella un verdetto di condanna, il secondo grado che ribalta il primo e dice che la trattativa Stato-mafia non è vicenda sostenibile in un'aula di giustizia, che non ci sono le prove che uomini delle istituzioni abbiano negoziato con i peggiori criminali della storia italiana e che solo patti e ricatti abbiano segnato la stagione delle stragi. Sconfessati i giudici di primo grado, l'impianto accusatorio non ha retto, troppa tortuosa la via dell'incolpazione con un reato difficilmente dimostrabile come la «minaccia a corpo politico dello stato». Tutti assolti gli imputati, tranne Leoluca Bagarella, il cognato di Totò Riina.

È una sentenza che fa uscire dal gorgo Marcello Dell'Utri e con lui Berlusconi e tutti quegli apparati che hanno sostenuto gli ufficiali del vecchio Ros (il Raggruppamento operativo speciale dei carabinieri), che fa vacillare anche le certezze di quella parte di magistratura che per anni ha creduto alla commistione fra pezzi dello stato e gente come Totò Riina. La sentenza d'appello in sostanza mette in discussione una "linea” e un'intera filosofia giudiziaria che, fin dal principio, si è scontrata con chi ha sempre negato l'esistenza di un abbraccio fra uomini in divisa e uomini d'onore. Questa è l'inchiesta che, più di altre dopo le stragi del '92, ha portato grandi lacerazioni nella magistratura.

Non c'è stata l'«interlocuzione illecita e illegittima» con i vertici di Cosa Nostra con lo scopo «di interrompere la strategia stragista». E se il verdetto di condanna di primo grado era sembrato sorprendente dopo la prima assoluzione dell'ex ministro Calogero Mannino nel 2018 - che processato separatamente, nel rito abbreviato, aveva fatto cadere uno dei pilastri accusatori - quello di secondo grado certifica che è sempre bene mantenere una certa distanza fra realtà giudiziaria e realtà storica.

Leggeremo le motivazioni della sentenza, ma intanto è evidente che non è stato riconosciuto il ruolo di Marcello Dell'Utri, l'inseparabile amico di Silvio Berlusconi che gli ha portato in dote i compari palermitani (prima i Bontate dell'aristocrazia mafiosa, poi gli emissari dei Corleonesi) nei mesi in cui nasceva il partito di Forza Italia di cui Dell'Utri è stato co-fondatore e che ha cambiato i destini del nostro paese con Berlusconi premier nel marzo del 1994. È stato uno dei personaggi centrali della vicenda il segretario tuttofare di Silvio, secondo l'accusa «si è reso disponibile a veicolare il messaggio intimidatorio di Cosa Nostra» in cambio di rassicurazioni. Una su tutte: l'attenuazione del regime carcerario per i boss rinchiusi al 41 bis.
E poi ci sono i carabinieri dei reparti di eccellenza investigativa di quell'epoca, il generale Mario Mori e il colonnello Giuseppe De Donno, il primo a capo del Ros e poi del servizio segreto civile e il secondo suo inseparabile scudiero. E con loro il generale Antonio Subranni. Tutti, dopo una ventina di anni, liberi dalla morsa della famigerata trattativa. Scivolati lì dentro con la misteriosa mancata perquisizione del covo del capo dei capi Totò Riina, con la mancata cattura di Bernardo Provenzano, con il ravvicinato e inquietante contatto con l'ex mafioso di Palermo Vito Ciancimino.

Passaggi della fu trattativa fra una bomba e l'altra, la ricerca di "coperture” politiche mai individuate. Sul giudizio ha pesato decisamente l'assoluzione finale sin Cassazione (del 2020) dell'ex ministro Mannino, la Corte d'appello ha ritenuto tropo fragile la tesi accusatoria e così ha affossato la prima decisione della Corte di assise.

Cosa ci consegna alla fine quest'altra sentenza? Che quando parliamo di mafia non possiamo più affidarci soltanto ai bolli di un giudice o di una corte, troppo riduttivo per spiegare la complessità della Sicilia all'epoca delle stragi. 

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