C’è un tempo limite per decidere se chiedere il processo oppure archiviare definitivamente il fascicolo che vede indagati Marcello Dell’Utri e Silvio Berlusconi per il reato di strage, articolo 422 del codice penale, aggravato dall’aver agevolato la mafia: la fine del 2022, l’anno del trentesimo anniversario di Capaci e via D’Amelio.

L’indagine approfondisce il ruolo di soggetti esterni nella campagna stragista condotta dalla mafia nel 1993 sul continente con gli attentati a Firenze, Roma e Milano. L’accusa è quella di aver concorso nelle stragi, accusa sempre respinta da Berlusconi e Dell’Utri, quest’ultimo già condannato per concorso esterno in associazione mafiosa. Per gli avvocati che li assistono «è un’infamante ricostruzione».

Questa non è la prima indagine che riguarda Berlusconi e Dell’Utri per la stagione delle bombe e delle stragi. Le indagini precedenti sono finite tutte con l’archiviazione. Erano “Alfa” e “Beta” a Caltanissetta e “Autore 1” e “Autore 2” a Firenze, sigle per coprire la loro identità. Ancora prima, a Palermo, erano stati anche “M” e “MM” in compagnia di un certo “MMM“ che come occupazione temporanea aveva quella di stalliere, a tempo pieno invece faceva il mafioso della famiglia di Porta Nuova e ad Arcore badava ai “cavalli”. Si trattava del boss Vittorio Mangano, lo stalliere di Arcore.

Questa volta potrebbe finire diversamente. L'inchiesta è stata aperta dall’allora procuratore capo della repubblica di Firenze Giuseppe Creazzo, dal sostituto Luca Turco e dal procuratore aggiunto Luca Tescaroli. L’ipotesi degli inquirenti è che il presunto accordo economico tra i boss Graviano e Silvio Berlusconi sarebbe stato il presupposto per la convergenza d’interessi nella stagione stragista del 1993. Ipotesi che troverebbe riscontri in dichiarazioni, ma anche in alcuni documenti in possesso degli inquirenti. Ai pubblici ministeri basteranno questi elementi per mettere la loro firma sull’avviso di conclusione delle indagini, preludio della richiesta di rinvio a giudizio?

L’inizio dell’indagine

L’abbrivio dell’inchiesta è nel 2017 e parte dagli obliqui messaggi lanciati dal carcere dal boss Giuseppe Graviano che colloquiava con il suo compagno d’aria Umberto Adinolfi. Graviano è un mafioso e sa benissimo che ogni parola pronunciata in carcere viene captata dalle cimici: «Lo volevano indagare… Berlusca mi ha chiesto questa cortesia... per questo è stata l’urgenza». E ancora: «Lui voleva scendere, però in quel periodo c’erano i vecchi e lui mi ha detto ci vorrebbe una bella cosa».

Per gli inquirenti, «voleva scendere» rimanda all’idea di Berlusconi di scendere in politica già prima del 1994. La «bella cosa» è una strage per destabilizzare e favorire l’arrivo dell’“uomo nuovo”. La «cortesia» rimanda al «colpo di grazia» di cui parla anche il pentito Gaspare Spatuzza: un’altra strage. L’indagine si compone di vecchi faldoni, dichiarazioni, e la ricostruzione della settimana dal 21 al 28 gennaio 1994.

Spatuzza incontra il 21 Giuseppe Graviano al bar Doney. In quegli stessi giorni, a Roma, c'è anche Dell’Utri. Dorme all’hotel Majestic, poco lontano da via Veneto e in attesa della convention nella quale sarebbe stata annunciata la nascita di Forza Italia. Graviano dimora in una villa a Torvaianica, vicino alla capitale.

Un altro pentito conferma la versione di Spatuzza: Antonio Scarano (muore nel 2004) ricorda di avere accompagnato Spatuzza al bar Doney e di averlo visto parlare con un uomo che Spatuzza chiama “Madre Natura”, soprannome di Graviano. Scarano dice che lui e Spatuzza sono andati anche a Torvaianica. Coincidenze rilevate dalla nuova indagine. Di quella settimana si ricorda anche il fallito attentato allo stadio Olimpico, la discesa in campo di Silvio Berlusconi e pochi giorni dopo l’arresto dei Graviano a Milano.

I due cadono in trappola mentre accompagnano un ragazzino di Brancaccio a fare un provino al Milan. Dichiarerà sibillino “Madre Natura” nell’aula della Corte di Assise di Reggio: «Se i carabinieri diranno la verità su come sono andati i fatti, se anche D’Agostino dirà chi li ha invitati a fare il provino al Milan..voi scoprirete chi sono i veri mandanti». Chi fa la “soffiata” per far scivolare nella rete i Graviano e proprio in quel momento?

La contropartita al «colpo di grazia» e alla «bella cosa», sarebbe arrivata con il primo governo Berlusconi: il “decreto Biondi” che viene ritirato per l’opposizione della Lega, un decreto che vuole rivedere la carcerazione preventiva e che è appoggiato da un fronte che tra i sostenitori più accesi ha anche Licio Gelli. Il contenuto del provvedimento sarebbe stato conosciuto con anticipo da Cosa Nostra. Una misura riproposta anche mesi dopo in altra forma, poi cancellata, però, dalla caduta del governo.

Ma l’indagine approfondisce anche dichiarazioni di Graviano su Berlusconi fatte durante un’udienza del processo “’ndrangheta stragista” a Reggio Calabria. È il 7 febbraio 2020. «Da latitante l'ho incontrato per tre volte». L’ultima, aggiunge, nel dicembre del 1993, quindi un mese prima del suo arresto a Milano e in coincidenza della famosa “discesa in campo”: «Con Berlusconi abbiamo cenato insieme...a Milano 3 in un appartamento...». Graviano sostiene che all’ex Cavaliere siano andati i soldi di suo nonno materno Filippo Quartararo: «Li aveva messi nell’edilizia al nord, il contatto è col signor Berlusconi». Gli avvocati del leader di Forza Italia annunciano querele a raffica.

Nella ricerca di riscontri e documenti, alcuni sono stati trovati, ci sono anche buchi nell’acqua, visto l’esito nullo della perquisizione a casa dei congiunti dei Graviano alla ricerca di prove per verificare il presunto accordo economico. La corte di Cassazione ha accolto il ricorso della difesa contestando al tribunale del Riesame difetto di motivazione, ora si attende un nuovo verdetto del tribunale delle libertà.

La fonte e Ilda Boccassini

I pm approfondiscono anche un’altra vicenda. L’ex procuratore aggiunto di Milano, Ilda Boccassini, in un suo libro recente, ha raccontato un particolare riguardante uno scoop firmato da Giuseppe D’Avanzo e Attilio Bolzoni (oggi giornalista di Domani) e pubblicato su Repubblica. Nel 1994 Boccassini ascolta il pentito Salvatore Cancemi che le rivela come Cosa nostra di Totò Riina, tramite un intermediario, avrebbe preso soldi da Silvio Berlusconi. Inoltre avrebbe indicato in un boss della mafia il punto di contatto con quel mondo. Si potevano perciò documentare le presunte consegne di denaro e verificare quella pista che riferiva di un rapporto speciale tra Berlusconi e Riina. «Per questo rimasi sconcertata e annichilita quando, solo pochi giorni dopo, l’effetto sorpresa su cui molto contavamo venne spazzato via da un articolo comparso su Repubblica», scrive Boccassini in La stanza numero 30’. Boccassini afferma di conoscere il nome di quella fonte, D’Avanzo le avrebbe rivelato l’identità, nel 2011, pochi giorni prima che il cronista morisse.

La procura di Firenze vuole conoscere quel nome, secondo l’ipotesi dei magistrati fiorentini quella fonte, consegnando quel verbale avrebbe, agevolato Berlusconi e Dell’Utri. Bolzoni non può rivelarlo per segreto professionale, ma Boccassini potrebbe e per questo è stata ascoltata dalla procura di Firenze. Domani ha contattato Boccassini per un commento sulla vicenda, ma lei non ha voluto rispondere. Nel libro scrive: «Niente nomi, perché Peppe (D’Avanzo, ndr) non c’è più e perché il suo interlocutore mi conosce bene. Forse sarebbe importante per tutti se volesse confrontarsi sui motivi che lo hanno spinto ad agire in quel modo».

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