Non ho mai avuto un rapporto felice con il cibo, sin da quando ero bambino. Uno dei racconti più spassosi che mia madre puntualmente rispolvera nelle occasioni conviviali riguarda un minestrone di verdure che, quando avevo più o meno tre anni, ho spalmato sul muro della cucina come risposta all’insistenza dei miei genitori che si aspettavano lo mangiassi a tutti i costi. Quell’episodio era solo un antipasto di quello che sarebbe stato poi.

Già, perché poi sono stato un ragazzino piuttosto complicato quando ci si doveva mettere a tavola. Il pane? Solo la parte superiore, quella che non era stata a contatto con il forno. La pasta? Solo rossa, al pomodoro. Il purè era ok, ma solo quello in busta, di quella marca. I cracker a merenda perfetti, a patto che non avessero i bordi troppo cotti. Un figlio viziato, potrebbe pensare qualcuno. No, un bambino problematico: per le mie convinzioni, se non assecondate, ero capace di passare anche ventiquattr’ore senza mangiare. Non a caso ero magrolino e cagionevole.

Col tempo i miei limiti sul cibo si sono leggermente smussati, complice anche l’arrivo dell’adolescenza e quell’iscrizione alla scuola alberghiera accolta - inutile dirlo - con grande sorpresa dai miei familiari. Ma i problemi, quelli veri, non erano ancora iniziati.

Rifugio

La salita vera e propria l’ho cominciata, inconsapevole, alla fine del 2005, quando carboidrati e zuccheri raffinati sono diventati il mio rifugio preferito: mio padre, in ospedale, coi giorni contati, era lo specchio di una realtà che non solo faticavo a digerire, ma che non volevo proprio accettare. Così, pasti che avrebbero sfamato due, a volte anche tre persone sono diventati la normalità, merende così ricche di zucchero da far venire il voltastomaco al solo pensarle erano le mie amiche quotidiane. Ero capace di accompagnare il pranzo con tre-quattro pagnotte, di bermi una bottiglia di Coca Cola da un litro in un quarto d’ora scarso.

È stato in quei mesi, a cavallo tra il 2005 e il 2006, che ho scoperto che il cibo aveva anche un volto che poteva regalare conforto. Frutta e verdura neanche a parlarne: solo carboidrati e zuccheri raffinati mi regalavano gioia vera, ossigeno puro. Al massimo potevo accettare delle proteine animali, carne rossa e, qualche volta, pesce. Meglio se fritto.

A diciotto anni avevo largamente superato i cento chili di peso. Sono stati mia madre e i miei zii, qualche mese dopo la morte di mio padre, ad accorgersi che qualcosa non andava. L’hanno chiamato “disturbo da alimentazione incontrollata” (oggi direbbero “binge eating” perché l’inglesismo dà un altro tono).

Una dietologa e un preparatore atletico mi hanno rimesso in forma nel 2007, con un piano nutrizionale pensato ad hoc per la mia situazione e un lavoro fisico quotidiano che mi hanno permesso di perdere quasi venti chili in poco meno di un anno, regalandomi una giovinezza serena. Cosa sia scattato nella mia testa per permettermi di compiere quel cambiamento non lo so, è una cosa che non riesco a spiegare. Di certo, quella dietologa e quel preparatore atletico mi hanno svoltato la vita.

Oggi il mio rapporto col cibo è migliorato: ho imparato a mangiare quasi tutte le verdure (tranne il cavolfiore, quello lo odio) e riesco a capire quando sto esagerando. Ma chi ha sofferto di disturbi alimentari sa che non basta raggiungere un peso “sano” per essere guarito, sa che è qualcosa che ti definirà per sempre, come per un ex alcolista.

Un fisico in continuo mutamento

Negli ultimi tredici anni il mio fisico si è trasformato, in bene e in male, in male e in bene. Ho messo, perso, rimesso e riperso almeno cinquanta-sessanta chili, per un forbice che va dai 75 ai 105 chili. Ho fatto sport e ritrovato la mia forma migliore, poi mi sono infortunato a un ginocchio e sono tornato a litigare con la bilancia. Ho seguito il piano alimentare di una nutrizionista e mi sono rimesso in carreggiata, poi sono tornato a mangiare in modo irregolare e a ingrassare. Ancora oggi alterno settimane nelle quali conto le calorie di ogni singolo pasto, ad altre nelle quali mangio anche quando non ho appetito.

La mia vita a fisarmonica la misuro con i vestiti del guardaroba: la stessa t-shirt a febbraio mi veste stretta e a luglio la vedo enorme; gli stessi jeans a settembre non si allacciano e a dicembre li posso portare solo con una cintura ben stretta.

A complicare il tutto c’è il mio lavoro, che pure amo moltissimo: parlo di cibo. Lo faccio con degli articoli di giornale e con i social network, con le parole, con i video e con le fotografie, sfruttando quel diploma alberghiero conseguito nel 2007. Avere il cibo come lavoro comporta il mangiare fuori spessissimo. Affrontare menu di quindici portate. Venire costantemente spinti ad assaggiare, a provare quella cosa in più.

Può sembrare incredibile, eppure in pochi ambienti come in quello del giornalismo gastronomico ho trovato un rapporto tanto malsano col cibo. Il lavoro di un giornalista gastronomico è estremamente impattante sul corpo, credo che sia evidente. Se si vuole conoscere, lavorare, crescere, ci si deve sedere a tavola continuamente. Se si deve mangiare a quei ritmi e in quelle quantità, non si può pensare di mantenere una linea perfetta. È fisiologicamente inevitabile. Sarà per questo che ho visto una serie lunga così di rapporti disfunzionali con il cibo da parte di colleghi e (soprattutto) colleghe.

Come ho già detto, so benissimo che questo è un lavoro impattante per il corpo e, più in generale, per il benessere psicofisico, così come lo sono altri lavori - penso alle diete estreme di uno sportivo o alle infinite cene di rappresentanza di politici o manager. Ma nel mio caso parliamo di un rapporto altalenante con l’alimentazione, vista a volte con paura, a volte come un’ossessione. Mi sono anche chiesto, in alcuni casi, se fossi la persona giusta per raccontare il cibo.

Eppure non sono il solo a vivere in questa sorta di bolla. Una ricerca nazionale del ministero della Salute 2019- 2023, che incrocia fonti diverse (le Schede di Dimissione Ospedaliera, gli accessi ai centri specializzati e al pronto soccorso e le esenzioni), racconta che nel 2019 i casi di disturbi alimentari (anoressia, bulimia e binge eating) intercettati erano stati 680.569, nel 2020 erano balzati a 879.560, nel 2021 a 1.230.468, e nel 2022 a 1.450.567. Nel complesso le persone trattate oggi per queste patologie sono oltre 3 milioni; nel 2000 erano circa 300 mila.

Anche i dati Rencam regionali (Registro nominativo cause di morte) sono purtroppo molto alti: l’ultimo a nostra disposizione, quello del 2022, rileva complessivamente 3.158 decessi con diagnosi correlate ai disturbi dell’alimentazione e della nutrizione, con una variabilità più alta nelle regioni dove sono scarse o addirittura assenti le strutture di cura.

Pochi servizi rispetto alla richiesta di aiuto

A rendere ancor più drammatico il quadro ci sono i servizi, pochi rispetto alla richiesta di aiuto, specie per i giovani. L’ultimo censimento del Centro nazionale dipendenze e doping dell’Istituto superiore di sanità, realizzata con il supporto del ministero della Salute-CCM, ha contato al 28 febbraio 2023 centoventisei strutture sparse su tutto il territorio nazionale, di cui centododici pubbliche (appartenenti al Servizio sanitario nazionale) e quattordici appartenenti al settore del privato accreditato. Il maggior numero dei centri (sessantatré) si trova nelle regioni del Nord, ventitré sono nelle regioni del centro (di cui otto nel Lazio e sei in Umbria), mentre appena quaranta sono distribuite tra il Sud e le Isole (dodici in Campania e sette in Sicilia). Ma soprattutto, solo il 48 per cento dei centri rispondenti ha dichiarato di prendere in carico i minori fino a quattordici anni.

Forse sarebbe il caso di prendere la questione un po’ più seriamente, sin dall’inizio, a partire dalle istituzioni. Perché non tutti hanno dei familiari che si accorgono del problema, non tutti riescono a far scattare da soli il campanello d’allarme che dà il via al recupero, alla rinascita. A volte serve anche l’aiuto dei professionisti.

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