La pista da bob di Cortina è solo l’ultima carta poggiata su un castello che sembra stia per crollare da un momento all’altro. È forse il simbolo di una spaccatura che si è creata tra chi la montagna la vive, e chi invece vorrebbe uno sviluppo che risulta difficile considerare sostenibile.

La manifestazione che si è tenuta lo scorso 24 settembre nella “perla delle Dolomiti” ne è l’emblema: non solo ambientalisti, ma intellettuali, scrittori, politici e liberi cittadini che hanno voluto mostrare il proprio dissenso verso un’opera che in pochi vogliono.

Ed è proprio il probabile fallimento del progetto che sta dietro alla pista da bob che toglie il velo a ciò che aleggiava da tempo, non solo tra gli ambientalisti: i grandi eventi come le Olimpiadi invernali non possono essere ospitati in territori tanto fragili, di elevato pregio naturalistico e paesaggistico, composti da piccole comunità che oggi hanno problemi molto più gravosi da affrontare, primo tra tutti lo spopolamento.

«Non abbiamo a oggi elementi, a poco più di tre anni dai Giochi olimpici 2026 e dopo un confronto avviato e voluto da fondazione Milano Cortina 2026 sin dal 2021, per potere attestare la sostenibilità ambientale delle opere e dei giochi olimpici invernali, dichiarata nel dossier di candidatura», si legge in una nota rilasciata congiuntamente dal Club alpino italiano, Federazione pro natura, Italia nostra, Legambiente, Lipu, Mountain wilderness, Tci e Wwf dello scorso 13 settembre.

Mancanza di trasparenza, costi e opere aumentati in modo esponenziale, alcuni dei quali considerati inutili dagli ambientalisti, hanno probabilmente alzato il velo sull’idea di montagna che aleggiava in quelle conche e valli già anni fa.

«Ci avevano promesso le Olimpiadi a costo zero e oggi siamo a 5 miliardi e mezzo di soldi stanziati o dal governo o dalle regioni», spiega Luigi Casanova, storico ambientalista e presidente onorario di Mountain wilderness. «C’erano state promesse le Olimpiadi sostenibili sorrette da una valutazione ambientale strategica che avrebbe garantito la condivisione e la partecipazione di tutta la cittadinanza, ma così non è stato. Doveva essere un’Olimpiade trasparente, ma tutte le opere sono state sono state commissariate».

Promesse non mantenute

Quella che traspare dunque è una visione bulimica, vorace, che mette a rischio un territorio come quello montano già fortemente colpito dalla crisi climatica ed ecologica.

Da anni si discute su come trovare un modello di sviluppo sostenibile per le valli e le comunità alpine, ma i grandi eventi non sembrano essere la chiave. Anzi la montagna «viene vista come un terreno di conquista», racconta Pietro Lacasella, tra i giovani promotori dell’ultima manifestazione e da sempre attento ai temi della montagna. «Questo è l'emblema di un modello di sviluppo ormai fuori dal tempo».

Forse, la nota positiva di tutta la discussione, sta proprio nel fatto che la sensibilità nei confronti dell’ambiente montano sta aumentando. Le comunità locali si rendono conto che si tratta di «qualcosa di prezioso e unico, che vale la pena tutelare perché può essere fonte di ricchezza», continua Lacasella. «Oltre alla sostenibilità ambientale c’è infatti molta attenzione verso quella economica. E ci si è resi conto che questo tipo di investimenti è iniquo, perché non porta benefici alla comunità».

Prendendo come spunto la pista da bob, conti alla mano, si parla di circa 3 milioni di investimenti ad atleta. Una cifra che Lacasella considera «sproposita per una comunità che chiedeva più trasporto pubblico, maggiore attenzione alla sanità, maggiori servizi».

In tutto questo la gara d’appalto per la realizzazione dell’opera è andata deserta per ben due volte, segno che nessuno vuole prendersi carico di un rischio d’impresa così elevato: poco tempo a disposizione, costi lievitati in maniera esponenziale e, non ultimo, l’opposizione di parte della cittadinanza e degli ambientalisti.

Ed ecco che l’idea di spostare le gare a Innsbruk, avallata dal Comitato olimpico internazionale (Cio) a marzo di quest’anno, non è solamente più intelligente ed economica, ma in realtà «sarebbe un’ottima occasione per l’Italia di farsi portavoce di uno sguardo rinnovato sul futuro, farsi portabandiera di una rinnovata modernità, e mostrarsi aperti ad un dialogo con gli altri paesi che vivono a cavallo delle Alpi», spiega Lacasella. «Queste montagne non sono una barriera geografica o culturale, quanto una cerniera culturale». La distanza poi non è nemmeno abissale: Lacasella e lo scrittore Marco Albino Ferrari quest’estate hanno raggiunto la cittadina austriaca in bici, proprio per porre l’attenzione su questa possibile soluzione.

La scomparsa della neve

La questione non è legata solo alla costruzione delle infrastrutture o di nuove piste o di nuovi bacini artificiali. Ma è di più ampio respiro. Si tratta di scenari ai quali stiamo andando incontro oggi, non tra 20 o 30 anni.

Nature climate change ha recentemente pubblicato uno studio frutto della collaborazione di un team di ricercatori dell’università di Padova e dell’Istituto di scienze dell’atmosfera e del clima (Isac) del Consiglio nazionale delle ricerche di Bologna e coordinato dal professore Marco Carrer del Dipartimento territorio e sistemi agroforestali di Padova.

Lo studio mostra come, negli ultimi 50 anni, le Alpi abbiano registrato una riduzione del 5,6 per cento ogni decennio della durata del manto nevoso. Studiando gli anelli di accrescimento di una specie vegetale tipica degli ambienti alpini, il ginepro (Juniperus communis L.), si è scoperto che la durata dell’attuale copertura del manto nevoso è di 36 giorni più breve rispetto alla media a lungo termine, con un declino che, secondo i ricercatori, non ha precedenti negli ultimi sei secoli. Confermando che «quello che stiamo vivendo negli ultimi anni è qualcosa che non si era mai presentato precedentemente».

Mancanza di neve da una parte e aumento delle temperature dall’altra, stanno cambiando la morfologia della Alpi. Sono ancora vive le immagini del crollo di un serracco sul ghiacciaio della Marmolada a luglio 2022, che costò la vita a undici persone, e causato dalle elevate temperature di quell'estate.

Un segnale di ciò che sta accadendo e confermato anche dal recente studio pubblicato su Nature Communications che mostra come, negli ultimi 20 anni, alcune aree di alta montagna si stanno riscaldando ancor più di quanto atteso dai modelli globali.

In particolare sono proprio le aree in prossimità dei ghiacciai a registrare i valori più elevati, rivelando come il loro ritiro e la riduzione del manto nevoso stiano amplificando il tasso di riscaldamento stesso in una sorta di ciclo vizioso.

Alcuni scenari poi sono ancora più allarmistici, anche se guardano a orizzonti temporali molto in là, a fine secolo. Sta di fatto che si stima che senza una seria azione per contenere le emissioni il numero dei giorni di innevamento sulle Alpi potrebbe dimezzarsi entro la fine del secolo, con una perdita di neve che sarebbe particolarmente grave proprio nelle Alpi meridionali, come in Italia, Slovenia e parti della Francia.

Innevamento artificiale

Impatti che non si registrerebbero solo sugli habitat naturali, ma anche sulle attività economiche e in particolare su quelle turistiche. A fine agosto, uno degli studi più completi realizzati finora che ha valutato i cambiamenti della copertura nevosa di 2.234 stazioni sciistiche in 28 paesi europei, ha fatto vedere come oltre la metà, e quasi la totalità delle stazioni sciistiche, sarebbero esposte a un rischio molto elevato di insufficiente innevamento per livelli di riscaldamento di 2°C e 4°C rispettivamente.

Non solo, ma si è valutato anche il potenziale dell’innevamento artificiale come risposta all’aumento delle temperature: considerando l’impiego della neve artificiale per metà dell’area di un comprensorio sciistico – quella a quote più elevate – il rischio si ridurrebbe in qualche misura, anche se oltre un quarto dei comprensori sarebbe ancora interessato da una sostanziale carenza di neve con soli 2°C di aumento delle temperature. Insomma la neve artificiale potrebbe non bastare.

E questo pone più di un interrogativo alla pratica dell’innevamento artificiale, che probabilmente dovrà essere impiegato anche per i giochi olimpici del 2026: quali sono i costi ambientali ed economici dietro alla produzione di neve artificiali?

Non è facile trovare dati di riferimento, anche perché spesso gli studi sono puntuali e su aree limitate. Ma prendendo come spunto un dossier realizzato dal centro di ricerche Eurac di Bolzano, si legge come probabilmente «non sarà più possibile garantire la durata della stagione sciistica come la conosciamo oggi».

Inoltre, come riportano altri studi condotti in Austria e Svizzera, «gli attuali sviluppi climatici minacciano la redditività economica delle stazioni sciistiche a quota più bassa, anche a causa dell’aumento dei consumi di elettricità e acqua». E il punto sta proprio qui. Per produrre la neve servono condizioni meteorologiche favorevoli, oltre a un alto consumo di acqua ed energia.

Si è calcolato che solo in Alto Adige, negli inverni che vanno dal 2007 al 2016, i cannoni da neve abbiano «consumato dai cinque ai dieci miliardi di litri d’acqua a stagione e, insieme agli impianti di risalita, dai 90 ai 170 milioni di kWh di elettricità, vale a dire il 6-12 per cento del consumo annuo di acqua potabile e il 2,9-5,4 per cento del consumo annuo di elettricità di tutta la provincia».

Sia chiaro, non si tratta di essere contro lo sport o contro eventi internazionali che portano con sé quell'idea di collaborazione, competizione, preparazione e sportività di cui abbiamo bisogno come umanità, soprattutto in questi ultimi anni in cui molto è stato messo in discussione.

Piuttosto si tratta di fare scelte intelligenti, intellettualmente oneste e pragmatiche, capaci di lasciare quella legacy richiesta dallo stesso Cio, ovvero che ognuna delle opere olimpiche fosse in grado di avere una ricaduta positiva sui territori, per offrire un futuro soprattutto alle nuove generazioni. Futuro che oggi, invece, pare essere piuttosto incerto.

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