Chiamarla marea è riduttivo. Cercare di definirla con qualsiasi aggettivo sarebbe del tutto irrispettoso per chi ha deciso di fare della libertà la sua bandiera, il suo stile di vita. Per chi ieri ha scelto di affollare il corteo romano del Pride e mostrarsi così com’è con la consapevolezza che almeno lì, in mezzo a quell’arcobaleno festante, non si sarebbe sentito addosso nessun sguardo giudicante. Lo stesso con cui, purtroppo, è abituato a far i conti tutto il resto dell’anno.

Non a caso, è normalità la parola che viene ripetuta di più. «Questo per me è tutto» – dice Laura mostrando l’arcobaleno che ha disegnato sul braccio. «Tutti dovremmo essere qui perché la normalità è questa e non quella che cercano di imporci. Sono qui anche perché ho paura per quello che potrebbe accadere a mia sorella in una società che, purtroppo, sta facendo dei passi indietro».

Il suo è lo sguardo di Luca che ha avuto paura «quando Giorgia Meloni è salita al potere perché temevo, e tutt’ora temo, di non riuscire a portare a termine il mio percorso di transizione. Perché non dovrei essere libero di decidere quello che voglio fare del mio corpo?».

E, difatti, questo corteo è anche questo. La celebrazione di quei corpi che, per ritualità quotidiana, «rimangono nascosti. Come se dovessimo vergognarci di quello che siamo. Sono stanco di non potermi sentire me stesso. Sono stanco di non potermi sentire così vivo ogni giorno solo perché qualcun altro ha deciso per noi», dice invece Matteo.

Ma chi decide per noi? «Gli sguardi di chi ti giudica senza conoscerti, di chi ti guarda come fossi un rifiuto umano, di chi ti indica ai figli come cattivo esempio, di chi ti fa sentire sbagliato, di chi ti etichetta perché si rifiuta di accettare la diversità». Parole le sue che potrebbero essere il manifesto laico di questa massa uniforme che si è mossa tra le strade della Capitale.

«Ci dicono che siamo esibizionisti per il nostro modo di vestirci, per come manifestiamo le nostre emozioni. Ma si sono visti loro?», sottolinea invece Stefania che è qui «non perché devo dimostrare qualcosa. Io sono così e, sinceramente, non vedo cosa ci sia di sbagliato».

Esistere

Eppure in quella selva di corpi, non c’era nulla di esagerato, nulla di finto. Solo un senso implicito che accomunava tutti: esistere. Non sopravvivere, non adattarsi, non giustificarsi. Esistere e basta. E in una società che ancora oggi cerca di classificare tutto e tutti, qualcosa di così scontato come l’autenticità di essere vivi, diventa quasi rivoluzionaria.

«Mi sento vista solo oggi, e questo è triste», sussurra invece Giulia, forse quindici anni appena, che per la prima volta ha deciso di partecipare a un Pride. «Fuori da qui ho paura. A scuola non posso dire chi sono, a casa ho dovuto mentire. E mi chiedo: quanto ancora dobbiamo resistere per poter semplicemente vivere?».

I suoi occhi però sono pieni di speranza perché, guardandosi intorno, si rende conto che non è sola. E in effetti, le voci sono tante. Diverse, ma non per questo dissonanti. Ognuna con la propria storia, con le proprie ferite, ma tutte capaci di unirsi in coro unanime. E allora, forse sì. Descrivere tutto questo come marea è riduttivo. Perché non è un’onda che passa e si ritira, ma una presenza che resta, che scava, che spera di poter lasciare il segno.

Perché chi partecipa al Pride non sta chiedendo privilegi, ma diritti. Non chiede approvazione, ma rispetto. Non cerca di cambiare gli altri, ma solo di non dover più cambiare sé stesso per piacere agli altri. Quindi, chiamiamola voce, battito. Chiamiamolo coraggio che si fa collettivo, speranza che cammina. Perché chi ieri ha marciato non voleva essere speciale, ma solo uguale. Non voleva stupire, ma semplicemente esistere. E forse è proprio questo che spaventa: la libertà di chi non chiede il permesso per essere felice.

Ma se anche oggi, per qualcuno, essere sé stessi è ancora un atto di disobbedienza, allora ben venga questa disobbedienza colorata. Finché sarà necessaria. Finché servirà a ricordare che l’amore non ha bisogno di essere spiegato. Solo vissuto. Il Pride è tutto questo. È chi grida, è chi sfila, è chi piange di gioia perché per un giorno intero si è sentito al sicuro. E forse non c’è niente di più politico, oggi, che sentirsi al sicuro. Anche solo per qualche ora.

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