«Siamo abituati a pensare che il salmone sia un alimento sano e sostenibile. Ma questo era vero 40 anni fa, quando veniva allevato in piccole aziende lungo le coste della Norvegia. Oggi è diventato oggetto di un’industria globale ed è totalmente diverso da ciò che pensiamo: è un pesce pieno di pesticidi e antibiotici, che spesso muore nelle sue “gabbie” e per crescere il quale vengono distrutti gli oceani e sacrificati altre specie. Ecco perché abbiamo cercato di rendere il consumatore più consapevole delle sue scelte».

Douglas Frantz e Catherine Collins sono due autorevoli giornalisti americani: lei è stata collaboratore del Chicago Tribune e del New York Times prima di specializzarsi in frodi finanziarie internazionali: lui ha vinto un premio Pulitzer come corrispondente del New York Times ed è stato capo indagini del Senate Foreign Relations Committee e assistente del Segretario di Stato dell’amministrazione Obama. E se hanno deciso di dedicare due anni alla scrittura di Salmon Wars: The dark underbelly of our favorite fish (Henry Holt and Co.), non ancora tradotto in italiano, è perché, assistendo per caso a una pubblica discussione sugli allevamenti nella località canadese in cui vivono, hanno approfondito l’argomento e scoperto aspetti inquietanti.

A loro giudizio, a illuderci che il salmone faccia bene a noi e all’ambiente non sono caratteristiche di questo alimento, bensì il fatto che «chi lo produce oggi controlla la narrativa sul tema, come hanno fatto in passato le aziende petrolifere e i produttori di sigarette» dichiara Catherine. «Quando nessuno degli interlocutori che abbiamo contattato  per il libro ci ha risposto, abbiamo capito che quel silenzio, insieme al discredito degli studi scientifici, agli attacchi a chi non si allinea e alla collaborazione solo con giornalisti e accademici compiacenti, fa parte della stessa strategia della negazione usata  anni fa dall’industria del tabacco. Il settore sa benissimo che danno ambientale apporta, che sostanze chimiche somministra ai pesci, ma preferisce denigrare e attaccare chi lo indaga, invece di migliorare le sue pratiche».

Ai due reporter hanno rimproverato di non aver fatto adeguate ricerche, di aver ritoccato le foto che mostravano le disastrose condizioni dei pesci, «perfino di essere “contro l’inquinamento”, come se qualcuno potesse essere a suo favore» ironizza Catherine. «In ogni caso i dati sono chiari. Noi non siamo contro l’acquacoltura: anzi, riconosciamo il ruolo che potrebbe avere nel fornire al mondo le proteine di cui c’è bisogno. Siamo contro quella fatta male».

Come possono i consumatori riconoscere come i salmoni sono stati allevati?

Douglas: «Non possono. Le etichette obbligatorie in Europa sono migliori di quelle americane  e riportano alcuni dati sulla provenienza di un pesce, ma non dicono se ha ricevuto dosi di pesticidi o antibiotici. Poi ci sono diciture vaghe come “salmone Atlantico” che in realtà non implicano che il pesce in questione sia mai stato nel suddetto oceano. Secondo uno studio di Oceana, organizzazione internazionale per la protezione degli oceani, solo il 43 per cento delle etichette sul salmone è veritiera. E nel 2021 Seafood Watch, ente no profit, ha messo perfino il 50 per cento dei prodotti norvegesi venduti come “premium” sulla lista dei cibi da evitare. Lo ha fatto per l’elevata presenza di pesticidi e antibiotici usati per contrastare virus e pidocchi di mare, e per la quantità di esemplari che scappano dagli allevamenti e, incrociandosi con il salmone selvaggio, lo indeboliscono, pregiudicandone la sopravvivenza. Nulla di tutto questo viene spiegato al consumatore. Si potrebbe mettere un Qr code sui prodotti, ma, nonostante le dichiarazioni, la trasparenza non pare una priorità».

Che conseguenze ha il consumo di questo salmone sulla nostra salute?

Douglas: «Secondo un fondamentale studio, apparso sull’autorevole periodico Science nel 2004, il livello di PCB nel pesce di allevamento è 7 volte più alto che nel salmone selvaggio. Il PCB (un composto a base di cloro ndr), che si trova nel mangime, è una sostanza cancerogena. Secondo Leonardo Trasante, dell’università di New York, se viene assunto nel cibo dalle donne incinte può compromettere lo sviluppo cerebrale del feto. Science ha rilevato anche alti livelli di pesticidi, che si accumulano nella carne dell’animale e quindi di chi li mangia, e di antibiotici, che aumentano la resistenza a questi farmaci negli umani».
Catherine: «In più, il ”mangime” dei salmoni non è sostenibile. I salmoni sono carnivori e per alimentarli vengono sacrificate altre specie pescate sulle coste dell’Africa occidentale, togliendo agli abitanti di quelle zone la cena e il lavoro. Serve quasi un kg e mezzo di pesce per ottenere altrettanto salmone. Metterlo sulle nostre tavole non risolverà il fabbisogno di proteine del mondo. Per fortuna ci sono sperimentazioni per usare olio di alghe e larve di mosca soldato nero essiccate come alternativa alla farina di pesce. I primi due anni i pesci possono nutrirsene in modo esclusivo per scendere negli anni successivi al 40 per cento del totale: è un sacco di pesce che non finisce sacrificato per i salmoni».

Voi sostenete anche che nessuno si curi del benessere dei salmoni. Citate uno studio del 2003 condotto dal gruppo attivista Pure Salmon, che attesta come l'allevamento medio contenga circa 800.000 pesci in 12 gabbie e produca la stessa materia fecale di una città di 65.000 abitanti.

Douglas: «Sì, le condizioni di queste open net farms, allevamenti vicino alle coste, sono terribili. Le gabbie non vengono pulite e sono strapiene, come attestano disastri come quello del 2019 nel Newfoundland, in Canada, dove in un solo incidente sono morti 3 milioni di pesci. In genere l’affollamento è tale che la mortalità degli allevamenti è del 15-20 per cento del totale, paragonato con il 3,3 dei bovini e il 5 per cento degli allevamenti di polli. Si tratta di un numero mostruoso, e talvolta si arriva a una mortalità del 50 per cento. Se metà dei salmoni muore prima di essere venduta, da un lato emerge come il modo di allevarli sia terribile; dall’altro che i margini di guadagno sono così alti che i responsabili si possono permettere perdite ingenti. Ecco perché occorre una grande mobilitazione dei cittadini e delle autorità per contrapporsi a un settore molto lucrativo e per sostituire questo tipo di allevamento con impianti a terra, specie di grandi vasche che  purificano e riutilizzano l’acqua senza più inquinare i mari. Ormai sono centinaia i progetti di questo tipo, dalla Svizzera all’Irlanda, e in 5 o 6 anni speriamo che la loro quota di mercato sarà maggiore e guiderà il cambiamento».

Speriamo perché ora scegliere salmone selvaggio, cioè non allevato, è un lusso per ricchi.

Catherine: «Vero, ma questo non vuol dire che dobbiamo mangiare il salmone di allevamento. Nel Regno Unito ci sono già movimenti contro i prodotti allevati in Scozia, dove si usano molte sostanze chimiche. Possiamo mangiare altri pesci, come vongole o sardine. Oppure comprare il salmone che viene da allevamenti su terra. Per fortuna, il riscaldamento globale sta aumentando i costi degli allevamenti tradizionali, mentre sta diminuendo il prezzo dei salmoni cresciuti su terra».

Douglas: «Secondo un sondaggio dell’ong The environmental defense la stragrande maggioranza dei consumatori cerca pesci con una provenienza certificata e rispettosi della sostenibilità. È vero che la situazione economica induce le persone a fare scelte obbligate, ma occorre anche conoscere i veri costi del cibo sugli scaffali. Una parte del cambiamento spetta poi ai governi, che sono responsabili tanto della produzione di cibo quanto della protezione dell’ambiente. E se in Norvegia o Cile l’ago della bilancia inclina verso gli allevamenti, altrove essi possono incoraggiare le aziende a una maggiore trasparenza. Il nostro auspicio è che, anche grazie al nostro libro, le persone scelgano di mangiare con più riguardo per la salute e per l’ambiente».

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