Il segretario leghista testimonia nel processo per diffamazione contro lo scrittore che lo aveva etichettato come “ministro della malavita”. Stretta di mano tra i due, Saviano gli dice «vergognati». Il vicepremier cambia posizione sulla scorta: «Non è un privilegio, né un vantaggio». Ma nel 2018 «minacciò» di toglierla allo scrittore. Scontro sulla vicenda del parlamentare leghista il cui suocero fu condannato per estorsione aggravata da metodo mafioso
Stavolta è quella buona. Dopo diverse udienze disertate per causa di forza maggiore (impegni istituzionali), il ministro dei Trasporti e delle Infrastrutture Matteo Salvini si presenta a Piazzale Clodio, a Roma, per testimoniare nel processo che ha intentato nei confronti dello scrittore Roberto Saviano, accolto nell’aula 27 della palazzina B del tribunale capitolino con un lungo applauso.
I fatti
Cinque anni fa il leader del Carroccio, che nel 2018 era ministro dell’Interno, querelò Saviano per diffamazione a mezzo stampa. Più in particolare fu un’affermazione dello scrittore di Gomorra a far inalberare Salvini, additato come «ministro della malavita». Una citazione quest’ultima del meridionalista Gaetano Salvemini utilizzata dallo stesso Saviano per replicare al ministro che, per tutta la campagna elettorale, «minacciò» l’intellettuale campano di revocargli la scorta.
«Le parole pesano, e le parole del ministro della Malavita, eletto a Rosarno (in Calabria) con i voti di chi muore per ‘ndrangheta, sono parole da mafioso. Le mafie minacciano. Salvini minaccia», quanto detto all’epoca da Saviano, oggi a processo. Un processo che si prolunga da tempo: come detto, il capo del dicastero di Porta Pia ha più volte disertato le udienze in cui avrebbe dovuto deporre. Ma oggi la resa dei conti.
La testimonianza
Tutto inizia con la fredda stretta di mano tra le parti. E con Saviano che è laconico. «Vergognati», dice a Salvini che davanti al pm Sergio Colaiocco incassa e prende posto. Chiamato a testimoniare, in quanto parte civile, il leghista, che risponde negativamente alla domanda del giudice sulla possibilità di rimettere la querela, dice che nei giorni scorsi ha riletto i post di Saviano ed è «nuovamente rimasto stupito». «Ero ministro dell’Interno da una ventina di giorni, gli organismi del dicastero mi avvisarono dei post. Certo, ogni giorno ricevo critiche. Ma i post di Saviano, persona con ampio seguito social, furono letti da migliaia di persone. I contenuti poi erano pesanti – dice Salvini –, soprattutto per un ministro che lotta contro la mafia e che fa di questo una priorità. Essere individuato come amico della malavita, con la colpa di essere stato eletto in Calabria, significa essere oggetto di accuse terribili».
È il pubblico ministero a far poi notare il riferimento letterario. «Al di là di questo, il post alludeva a una contiguità alla ‘ndrangheta. Come l’imputato anche io sono sotto scorta», continua Salvini. Ed ecco: la scorta, punto cruciale della testimonianza del ministro. «La scorta non è un privilegio né un vantaggio», dichiara Salvini contraddicendo – sembrerebbe - quanto affermò nel 2018. Un fatto che il magistrato romano sottolinea. «Lei ha detto a Saviano che stava sotto scorta e che era un privilegio, questo non corrisponde più al suo pensiero?», la domanda del pm Colaiocco. Interviene anche il giudice Del Litto: «Ministro, le scorte servono». «Certo – ribatte Salvini – Infatti io non toccai quella dell’imputato».
Tuttavia la mise più volte in discussione. Un esempio? «Per Saviano sono sgrammaticato e razzista (…) gli leviamo la scorta», un post di Salvini portato a memoria dall’avvocato Antonio Nobile di Saviano. Nel 2017 Salvini poi scrisse: «Ciaone Saviano, fatti una vita a spese tue».
Il ministro tuttavia ribatte con una battuta: «Ero imputato a Palermo, non qui...».
Salvini continua: «Da ministro dell’Interno confiscai un palazzo dei Casamonica a Roma che divenne centro per l’autismo», dice Salvini enumerando quanto fatto al tempo per il contrasto alla mafia. Confisca ai Casamonica che fu, a ben ricordare, un’iniziativa di Regione Lazio e Roma Capitale, di concerto col Viminale. Ma tant’è.
Il caso Furgiuele
«Conosce la storia del suocero (Salvatore Mazzei, condannato per estorsione aggravata con metodo mafioso, ndr) del vostro parlamentare della Lega, Domenico Furgiuele?», chiede il legale di Saviano. Il ministro dice di non sapere e che comunque «avere certi suoceri non è un reato». E alla fine sposta l’attenzione sulla sua famiglia: «La mia bimba nel 2018 aveva cinque anni, ma i social arrivano ovunque».
Infine la dichiarazione spontanea di Saviano. «Oggi finalmente il procedimento che ha visto la chiusura indagini nel 2018 è di fatto iniziato, dopo ben 7 anni. Oggi Salvini difende Domenico Furgiuele, dimenticando la storia criminale del suocero del parlamentare. D’altronde il suo di suocero, Verdini, è coinvolto in fatti di corruzione. Possibile dopo questi fatti che Salvini sia ancora al suo posto? Un ministro che ritiene che il problema del paese siano le baraccopoli e i migranti e non la ‘ndrangheta. Durante quel comizio in Calabria in prima fila c’erano esponenti del clan Pesce, storicamente affiliata ai Bellocco, noti narcotrafficanti. E ora aspettiamo l’ennesima grande abbuffata con la posa della prima pietra del ponte sullo stretto. È questo il prezzo da pagare al ministro della malavita?».
In aula in moltissimi a manifestare solidarietà nei confronti di Saviano. Da Kasia Smutniak a Sandro Veronesi, da Loredana Lipperini a Chiara Valerio e Ilaria Cucchi. La prossima udienza è fissata per il 17 novembre.
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