Se gli autori di Sanremo ascoltassero le conversazioni social come stanno facendo gli artisti per vincere il #Fantasanremo, forse ieri sera non avremmo avuto alcuni dei momenti più bassi visti finora durante il Festival.

Teatro dell’assurdo

Foto Matteo Rasero/LaPresse 02 Febbraio 2022 Sanremo, Italia Spettacolo Festival di Sanremo 2022, seconda serata Nella foto: Iva Zanicchi - "Voglio amarti" Photo Matteo Rasero/LaPresse February 02, 2022 Sanremo, Italy Entertainment Sanremo Music Festival 2022, second evening In the photo: Iva Zanicchi - "Voglio amarti"

Se da un lato infatti il palco sembra stia diventando il terreno di gioco su cui gli artisti si scontrano non tanto a livello musicale, quanto più per conquistare i bonus della versione sanremese del Fantacalcio, con Sangiovanni, Michele Bravi e Iva Zanicchi agguerritissimi, rendendo le esibizioni una sorta di “teatro dell’assurdo” tra gesti, richieste bizzarre ad Amadeus e parole urlate senza contesto, come l’ormai iconica “papalina”, dall’altro lato sembra che nessuno tra gli autori abbia utilizzato i social negli ultimi due anni.

Soprattutto su Instagram, infatti, i temi dell’integrazione e dell’inclusione sono trattati con sempre maggiore consapevolezza e profondità e sarebbe bastato utilizzare l’app per qualche giorno per evitare di mettere in scena degli episodi così imbarazzanti.

Un teatro è il luogo per eccellenza della rappresentazione, una trasfigurazione ideale e metaforica di un “tipo” di persona, della società o di un evento.

Ben diverso è, invece, è il concetto di rappresentanza cioè la possibilità di rappresentare una o più persone, gruppi sociali o minoranze, intervenendo a loro nome. Ecco, forse ieri sera sul palco dell’Ariston i due termini si sono confusi.

Lorena Cesarini

Non credo tocchi a me giudicare l’intervento di Lorena Cesarini, presentato in conferenza stampa come un segno di integrazione, e rimando pertanto a voci che ogni giorno si occupano di questa tematica, come Djarah Kan, Oiza Q. Obasuyi e Espérance Hakuzwimana.

Quello che posso dire però, come donna, è che ho trovato svilente vedere una persona costretta a legittimarsi su quel palco e ringraziare il grande uomo che le ha concesso di essere lì.

Un uomo che, durante tutto il suo monologo, le è stato alle spalle ad annuire, rappresentando l’ipocrita retorica del white savior (salvatore bianco) che si nutre del dolore della persona che ha appena dato in pasto al suo pubblico, portandola a mettersi a nudo, dicendo cose inappuntabili ma allo stesso tempo dovendosi caricare sulle spalle il peso della discriminazione spiegando in lacrime cosa significhi vivere il razzismo in Italia, relegandolo a una dimensione puramente individuale, all’educazione del singolo e non al violento clima politico che per anni ha indirizzato la propria violenza contro il diverso, identificato come un nemico. Il pubblico capisce così bene quello che Lorena Cesarini aveva da dire che qualcuno le urla “Sei bellissima”.

Checco Zalone

Foto Matteo Rasero/LaPresse

Per quanto riguarda Checco Zalone forse sono troppo limitata intellettualmente per capire la sua critica sociale ma credo che portare in scena lo stereotipo della trans brasiliana che fa la sex worker sia stato un insulto soprattutto alla propria intelligenza, sbagliando completamente i modi con i quali si è posto nei confronti di una tematica che provoca enorme sofferenza a chi è costretto a viverla ogni giorno.

È vero che l’italiano medio è omofobo e svilisce ogni identità sessuale che non sia conforme agli standard eteronormativi ma ciò che c’è di sbagliato è sottendere che lo fa perché è omosessuale.

Ancora più sbagliato è sostenere che avere un rapporto con una persona transgender renda omosessuale. E non sono io a dirlo, ma la comunità LGBTQIA+, che sta giustamente facendo call-out al comico tramite social. E che andrebbe ascoltata e sostenuta. 

Più riusciti invece lo sketch sul rapper “Poco Ricco”, che ha posto alla luce la ipocrita romanticizzazione della povertà diventata ormai un baluardo dello storytelling social e quello del virologo Oronzo, che non m’ha fatto ridere ma almeno non mi ha fatto venir voglia di portare fuori il cane. Ecco, forse l’unico momento di vero scontro è stato augurare «Buon Pnrr» a una platea di persone notoriamente privilegiate.

Allora mi chiedo: forse per essere davvero inclusivi bisognerebbe iniziare a includere all’interno della pletora di autori persone che fanno effettivamente parte delle minoranze che si vogliono rappresentare?

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