«Nessuno va nello spazio per il cibo. Però la vista è stupenda»,  ha dichiarato Don Thomas, astronauta Nasa con un totale di 44 giorni in orbita. In realtà, però, il cibo gioca un ruolo significativo sia sull’efficienza sia sul morale degli equipaggi spaziali.

Al punto che, quando un piatto è particolarmente ben riuscito, non ci sono rivali, come attesta quanto richiesto da Mark Polansky, comandante dello Shuttle Endeavour nel 2009, per due settimane di volo: cocktail di gamberi. Per colazione, pranzo e cena. Una scelta motivata dal fatto che la consistenza dei gamberi sopravvive alla reidratazione meglio di altri alimenti.

Negli ultimi anni, però, le agenzie spaziali hanno cercato di migliorare la varietà e qualità delle pietanze consumate nello spazio, perché «dopo mesi di allenamento e uno stress costante mangiare deve essere un momento piacevole e gratificarti» spiega Sara Rocci Denis, Founder & Ceo di EAT freedom, società che ha preparato i pasti di Samantha Cristoforetti, astronauta italiana dell’Esa (Agenzia Spaziale Europea), nella missione Minerva del 2022.

Bonus food

Per questo motivo, nei cosiddetti bonus food, come viene chiamato quel 10 per cento di viveri che non fa parte della dotazione standard, sono ammesse alcune concessioni come un contenuto di sodio superiore ai 500 mg a pasto, consigliato dall’Esa. Se sgarro dev’essere, insomma, il minimo è che sia buono.

Anche perché una pietanza gustosa aiuta a recuperare mentalmente e aumenta il buon umore, cosa non scontata quando ci si trova costantemente a contatto con gli altri. Per ogni missione gli astronauti concordano di ricevere alcuni comfort dishes in base ai loro gusti o alle preferenze dietetiche. Per esempio, nella missione Futura del 2015, quando ha passato 200 giorni nello spazio, l’astronauta italiana dell’Esa ha voluto “elementi” da comporre perché «la divulgazione durante la missione riguardava anche l’importanza dell’alimentazione» spiega Stefano Polato, Chef e Head of Food development di Eat freedom, che per Futura ha seguito Cristoforetti e ha preparato anche lasagne, caponata e tiramisù per l’astronauta italiano dell’Esa Luca Parmitano.

Per la missione Minerva invece Cristoforetti, che ama «noci, cioccolato amaro, piatti di pesce e le verdure» ha visto le sue preferenze rispettate nelle «ricette della selezione personalizzata che l’Esa mi ha fornito per entrambe le missioni». Più facile a dirsi che a farsi, però: «Una coda di rospo in salsa zafferano con broccoli ci ha dato filo da torcere» ricorda Polato. Fuori dall’autoclave, dove gli alimenti sono sottoposti a termostabilizzazione, cioè a cottura intorno ai 120 gradi per eliminare la carica batterica, «il broccolo risultava molliccio e la coda di rospo gommosa», ricorda sempre Polato.

Per un pasto decente, la consistenza è la cosa più importante, prosegue Cristoforetti, insieme «all’apparenza, il più vicino possibile al cibo fresco. In generale i cibi a lunga conservazione a disposizione sulla Stazione Spaziale Internazionale sono liofilizzati o termostabilizzati, quindi risultano spesso pastosi e un po’ molli, il che invoglia meno a consumarli».  

Le complicazioni

Non mancano però altre difficoltà, a cominciare dal come far arrivare intatto il cibo dalla confezione alla bocca dell’astronauta evitando di ritrovarsi con frammenti alimentari che galleggiano a gravità ridotta (nel 1961 Gagarin si è spremuto in bocca da un tubetto manzo e pasta di fegato. Oggi gli astronauti generalmente mangiano da un sacchetto o una lattina).

In più, «lo spazio altera la percezione del gusto» illustra Sara Rocci Denis. «Sulla Terra, i fluidi corporei si depositano verso i piedi. In condizioni di gravità ridotta, si muovono liberamente verso la parte superiore del nostro corpo, creando una sensazione simile a quella del raffreddore di testa». Il che, come sa chiunque mangi quando è influenzato, ottunde i sapori. Anche gli aromi si diffondono diversamente in atmosfera controllata e in condizioni di microgravità: e dato che l’80 per cento del gusto passa attraverso il naso, si capisce la difficoltà di creare piatti saporiti. Infatti, per riattivare le papille gustative, molti astronauti prediligono cibi piccanti e speziati come i peperoni e i sapori piccanti come il rafano o il wasabi. In compenso, il sapore dolce risulta intensificato.

Il terzo problema per la cucina, ovvero il Nasa's Habitability and Environmental Factors Office dello Space Food Systems Laboratory, e per gli chef nazionali è come conservare a lungo gli alimenti; tutto deve avere una shelf life di due anni. I prodotti freschi durano pochi giorni, e sono messi «in cambusa» prima del lancio per il morale. Poi ci sono i cibi «mediamente umidi», come frutta secca o cioccolato che vengono sottoposti a radiazioni e poi reimpacchettati in involucri conformi alla sicurezza in volo.

E poi il resto dei pasti, soggetto a liofilizzazione, che elimina i batteri, o a termostabilizzazione, un trattamento termico che viene usato soprattutto per le carni e per i sughi. Il bonus food è riservato alle occasioni speciali o a sostenere il morale del singolo, anche se la condivisione dei piatti è uno dei collanti più ovvi per un equipaggio multiculturale. Per aumentare il cameratismo, per esempio, quando l’astronauta cinese Yang Liwei è stato lanciato in orbita per la prima volta nel 2003, ha portato carne di maiale yuxiang, pollo Kung Pao e riso.

Delle enormi difficoltà di creare un piatto spaziale ha raccontato l’über chef Heston Blumenthal che, per l’astronauta inglese Timothy Peake, ha ricreato alcuni piatti del buon ricordo: uno stufato di manzo al tartufo (per ricordare una cena romantica con la moglie), salmone affumicato, più salsicce e purè, e panini al bacon. Per mesi Blumenthal ha cercato di capire come evitare che il purè di patate uscisse nero dalla confezione per la «migrazione dell'umidità» (il fatto che la parte liquida di un cibo si separa dal resto).

Niente, però, rivaleggiava per difficoltà con il panino al bacon che doveva finire in lattina ed essere riscaldato a 140 gradi per 2 ore, in modo da eliminare i germi. Lo chef ci è riuscito dopo mesi di prove, finché nel 2015 il carico da lui predisposto è decollato da Cape Canaveral. Ed è esploso poco dopo il lancio.

Cibo fresco

In vista di missioni prolungate, o addirittura di un soggiorno su Marte, la prospettiva è di fornire agli astronauti cibo fresco: vegetali cresciuti in serre idroponiche o snack ai grilli che nello spazio sembrano ben resistere alle radiazioni elevate tanto da deporre le uova e riprodursi. La disponibilità di cibo «che cresce» elimina anche il problema delle scorte e della conservazione. «Un’alternativa promettente è la stampante in 3d che consente di creare cibo a partire da polveri», suggerisce Rocci Denis.

Le polveri vengono combinate a seconda della “voglia” dell’astronauta: un piccolo passo per l'umanità, ma un grande passo per la gastronomia spaziale. Ne risultano creazioni buone e molto belle: perché, anche se nessuno va nello spazio per il cibo, la sua vista deve essere almeno decente per produrre l’effetto rasserenante di un comfort food.

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