In questa rubrica mi sono spesso occupato della tradizione, cercando di dimostrare come in campo culinario questa sia quasi sempre il risultato di un’invenzione più o meno recente, che poco o nulla ha a che vedere con la vera storia dell’alimentazione.

Questo vale soprattutto per il nostro paese, che ha fatto delle proprie specialità gastronomiche un elemento identitario fondamentale, anzi, mi verrebbe da dire il principale, se non l’unico.

Non è questa la sede per analizzare tale fenomeno e per cercare di capire come e perché noi italiani preferiamo definirci come coloro che sanno preparare un perfetto piatto di bucatini all’amatriciana piuttosto che come i concittadini di Giulio Natta, che con le sue scoperte sulle plastiche ha letteralmente cambiato il mondo, o di Mario Tchou, che ha inventato una cosetta chiamata computer. Resta il fatto che oggi l’Italia è generalmente identificata come il paese dove i suoi abitanti sono soprattutto preoccupati dall’uso della pancetta nella carbonara o dalla larghezza della vera tagliatella alla bolognese.

Lo sfottò delle linguine

Tale immagine ha portato anche a situazioni caricaturali, direi quasi iperboliche, come nel marzo del 2021, quando il governo italiano bloccò la spedizione di 250mila dosi di vaccino anti Covid verso l’Australia, con le autorità di Canberra che risposero diffondendo un video nel quale veniva preparato un piatto di linguine alla carbonara, non prima di averle spezzate e di aver inserito nel condimento una generosa dose di panna: «We will break linguine in half and cook them in a cream-based sauce, that we will call a “carbonara”, unless Italy agrees to release the 250mila doses to AstraZeneca to Australia» (“spezzeremo le linguine a metà e le cucineremo in una salsa a base di panna, che chiameremo ’carbonara’, a meno che l’Italia non accetti di rilasciare le 250mila dosi ad AstraZeneca in Australia”). Come si vede, una minaccia davvero terribile.

Ma questa rappresentazione grottesca, che noi stessi abbiamo fortemente contribuito a costruire, può avere delle ricadute positive non solo dal punto di vista turistico, come è ovvio, ma paradossalmente anche dal punto di vista della ricerca e dell’innovazione.

Siamo nello spazio

Forse pochi sanno, ad esempio, che sulla Stazione spaziale internazionale, per capirci quella comandata da Samantha Cristoforetti fino a qualche settimana fa, il cibo è quasi tutto prodotto da aziende italiane e questo per decisione unanime delle agenzie spaziali che partecipano al progetto: Nasa (Usa), Esa (Europa), Rka (Russia), Jaxa (Giappone) e Csa (Canada).

Insomma, americani, russi, giapponesi e canadesi, oltre ai nostri partner europei, sono convinti che se della cucina ce ne occupiamo noi italiani, anche a 400 km di altezza, il risultato è abbastanza garantito. Inutile dire che il cibo degli astronauti non ha nulla a che fare con la secolare storia della pizza Margherita o del risotto alla milanese, anzi, si tratta proprio di un prodotto che utilizza tecnologie estremamente innovative sia dal punto di vista della preparazione sia da quello della conservazione.

In questo caso, la tradizione gastronomica, vera o inventata, ma soprattutto la sacralità con la quale noi italiani la celebriamo quasi ogni giorno, ha permesso ad alcune nostre aziende che si pongono sul limite tecnologico più estremo per quanto riguarda la produzione alimentare di godere di una reputazione fortissima e quindi di un vantaggio competitivo che forse avrebbero avuto anche se fossero state tedesche o canadesi, ma che essendo italiane hanno potuto far valere con molta meno fatica.

La forza del prodotto

Se volessimo trarre da questa vicenda una lezione più generale, potremmo dire che l’Italia si è trasformata in un enorme distretto industriale del cibo. E proprio come nel caso delle piastrelle a Sassuolo o dei coltelli a Maniago, tanto per fare due esempi a caso, l’identificazione di una comunità con un prodotto favorisce la ricerca, la cooperazione e soprattutto rafforza l’immagine esterna di quel prodotto.

Ovviamente tutto questo non ha nulla a che fare con quello che si mangiava in Italia nel Rinascimento ma, se tale narrazione può aiutare le nostre imprese più innovative, ben venga anche quella. Del resto, come tutti sanno, Isabella d’Este era in grado di preparare meravigliosi tortelli di zucca, prima ancora che la zucca arrivasse in Europa.

© Riproduzione riservata