Il 27 luglio 2025, a Punta Molentis, Villasimius, oltre cento persone — tra cui dodici bambini e una donna incinta — sono state costrette a fuggire via mare. Le vie di terra erano già divorate dal fuoco. Il vento di maestrale soffiava a raffiche, ostacolava i lanci dei Canadair e moltiplicava la velocità delle fiamme. Sullo sfondo auto incenerite, spiagge invase da un fumo nero e denso, residenti e turisti in fuga con qualsiasi mezzo disponibile.

Il bilancio? Una località devastata, centinaia di ettari in cenere, una stagione turistica colpita nel vivo.

A Punta Molentis (Villasimius) la Capitaneria di porto di Cagliari ha soccorso i bagnanti facendo loro evacuare la spiaggia via mare (foto Ansa)

Villasimius non è stato un caso isolato. Negli stessi giorni è bruciato il Sarrabus, Villacidro, Osilo, Olbia, Pattada, Oniferi, Furtei. L’intero corpo forestale regionale, la Protezione civile e i vigili del fuoco sono stati schierati in forze, mentre il sistema aeronautico — Canadair ed elicotteri — si scontrava con l’impossibilità di operare con precisione per colpa del vento.

Il 2025 è solo l’ennesimo anno critico in una lunga sequenza: nel 2021 il Montiferru bruciò per giorni, 20.000 ettari in fumo, danni per centinaia di milioni, 1.500 persone evacuate. Nel 2024 furono oltre 5.000 gli ettari bruciati, con 1.135 incendi registrati solo fino a luglio.

Fuoco sistemico

La Sardegna convive con una media di circa 2.500 incendi l’anno, per una superficie annua bruciata che negli ultimi quindici anni si aggira attorno ai 17.000 ettari. Il dato più allarmante, tuttavia, è la qualità del territorio colpito: nel 2025, circa la metà dei 1.465 ettari devastati erano aree protette della Rete Natura 2000. E dietro questi numeri si nasconde una realtà ancora più drammatica: il 96 per cento degli incendi è di origine umana, spesso dolosa. La legge 353/2000 vieta cambi di destinazione d’uso dei terreni bruciati per 15 anni, ma i catasti delle aree percorse dal fuoco sono in larga parte assenti o incompleti.

Dietro le fiamme si nascondono interessi: pascoli da rinnovare illegalmente, terreni da liberare per l’installazione di impianti fotovoltaici, l’illusione di qualche lavoro stagionale nella forestale o nella ricostruzione. Gli abbruciamenti incontrollati, le scintille di trattori senza manutenzione, gli allacci elettrici abusivi sono la normalità di un territorio abbandonato. Le pene previste dal Codice penale (fino a 10 anni per incendio doloso) raramente si traducono in condanne effettive: mancano le prove, le indagini si perdono, l’impunità è la regola.

Il sistema antincendio sardo ha una struttura teoricamente solida: Corpo forestale, Agenzia Forestas, Protezione civile, Canadair, droni, piani regionali triennali. Ma l’attuazione è un’altra cosa. Il vecchio sistema Teletron, che riduceva dell’85 per cento i roghi grazie al monitoraggio, è stato dismesso nel 2005 e mai sostituito. I comuni sprovvisti di un piano locale antincendio sono ancora decine. La flotta aerea è spesso inadeguata, o costretta a partire dalla terraferma.

Quest’anno, per la prima volta, è intervenuto in Sardegna un modulo antincendio specializzato francese, grazie al Meccanismo di Protezione civile dell’Unione europea (UCPM) che consente agli stati membri di inviare squadre e mezzi laddove le risorse locali siano superate. È un segnale importante. Ma è anche un’ammissione: da soli, non ce la facciamo più.

boschi non più abitati, né presidiato

Nel frattempo, la prevenzione continua a essere il grande assente. Solo un terzo dei boschi italiani è sottoposto a gestione attiva. Il resto è lasciato al degrado, accumula biomassa infiammabile e diventa una polveriera pronta a esplodere. Il bosco non è più abitato, né presidiato. È terreno anonimo e vulnerabile.

Ciclicamente ogni incendio attira le solite reazioni istituzionali. «I piromani sono nemici della comunità», «non lasceremo sole le popolazioni colpite», «promettiamo risarcimenti immediati»: parole sentite e risentite. La presidente Alessandra Todde ha chiesto lo stato d’emergenza. È quanto accaduto nel 2021, nel 2022, nel 2023. Le dichiarazioni arrivano sempre dopo. Come dopo arrivano i fondi, sempre più spesso sotto forma di prestiti o anticipi condizionati, mai rimborsi certi. Intanto, la stagione brucia.

ANSA

Il fuoco in Sardegna è ormai un sintomo di squilibrio cronico: sociale, economico e climatico. La crisi climatica moltiplica i giorni di rischio, ma è la mano dell’uomo a innescare quasi ogni rogo. Le comunità rurali sono impoverite, abbandonate, spinte a vedere nell’incendio una leva per ottenere qualcosa. L’agricoltura estensiva, lasciata senza presidio, diventa un pericolo. E lo stato, che dovrebbe rimettere in equilibrio le leve dello sviluppo, si limita a spegnere.

Eppure, le soluzioni tecniche esistono. La regione ha investito in droni, sensori, cooperative rurali. Ma senza presidio umano, senza economie che rendano conveniente la custodia del bosco, senza piani comunali attuati, nessuna innovazione è sufficiente. Serve una cabina di regia interassessorile. Serve trasferire risorse dalla lotta attiva alla gestione forestale. Serve un corpo investigativo per gli incendi dolosi.

Serve, soprattutto, un’idea di futuro in cui il bosco non sia solo scenografia turistica, ma un pezzo vivo di comunità. Ma il fuoco, qui, non è emergenza. È un sistema.

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