Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci delle motivazioni della sentenza di secondo grado del processo sulla trattativa stato-mafia.


La trattativa, qualsiasi trattativa che non si discosti dall’accezione comune con cui è intesa tale locuzione, postula un'interlocuzione tra due o più parti finalizzata a giungere ad un accordo che si sostanzi in reciproche rinunce e concessioni.

Essa prefigura quindi uno scenario incompatibile con il reato di minaccia qualificato che riproduce lo schema del reato di ricatto previsto dal Codice Zanardelli non essendo necessario che il soggetto agente consegua il risultato cui è preordinata la minaccia.

È infatti un atto unilaterale di coartazione della volontà altrui, perpetrato nei confronti di uno o più soggetti predeterminati e volto non già a realizzare un assetto di reciproco contemperamento degli opposti interessi, bensì ad imporre la propria volontà alla controparte, coartandone la volontà per evitare di subire un danno ingiusto che si prospetta alla vittima, ove non dovesse cedere alle pretese dell’autore della minaccia.

Se dunque fosse vero che il governo o un’autorità rappresentativa dello stato è stata parte di una trattativa, in ipotesi con i vertici dell’organizzazione mafiosa, ovvero di una negoziazione basata su uno scambio di reciproche concessioni e rinunce, allora esso non potrebbe al contempo considerarsi vittima del reato di minaccia a corpo politico dello stato poiché nell’ambito di un accordo “negoziale”, lo stesso governo non potrebbe considerarsi come coartato nelle sue scelte e nella volontà di addivenire a un accordo. E quindi se vi fu trattativa, non ci sarebbe alcun reato.

Se invece fosse vero che non v’è stata alcuna negoziazione, ma solo un’imposizione unilaterale di richieste accompagnate dalla prospettazione di ritorsioni violente nel caso di mancato accoglimento, occorrerebbe dimostrare che i carabinieri, che si erano in ipotesi attivati per favorire l’apertura di un dialogo al fine di giungere ad un intesa — cioè una vera e propria trattativa tra lo Stato e la mafia — si siano prestati a veicolare al governo non più una proposta, o l’accettazione della proposta di avviare un negoziato, ma la minaccia tout court di ulteriori stragi se non fossero state accolte le richieste di Cosa nostra.

Nella prospettazione comune agli atti d’appello delle difese dei tre ex ufficiali del Ros queste preliminari considerazioni metterebbero già in evidenza vizi genetici e insuperabili del costrutto accusatorio.

La mancata prova del ruolo di Mannino

Si vedrà però come la mancata prova del ruolo propulsivo di Calogero Mannino, unita alla certezza che i carabinieri non ebbero alcuna autorizzazione da parte di esponenti di governo ad esplorare la possibilità di un negoziato con Cosa nostra, imponga si un ripensamento dell’originaria prospettazione accusatoria, ma senza per questo pregiudicare la validazione sul piano probatorio dell’assunto secondo cui il reato è configurabile e si è perfezionato.

Resta infatti accertato, sul piano oggettivo, l’apporto che l’improvvida iniziativa dei carabinieri, attraverso la sollecitazione a trovare un intesa, trasmessa da Vito Ciancimino - per il tramite di Cinà - ai vertici mafiosi e la conseguente aperture, agli occhi dei medesimi vertici, di un canale di comunicazione con un’autorità di governo sovraordinata a quelli che essi ritenevano suoi emissari ebbe nel far sì che prendesse corpo e poi si rafforzasse, con il progredire dell’interlocuzione tra gli ufficiali del Ros e il Ciancimino, il proposito non più di una generica intimidazione, qual era quella che poteva rinvenirsi nei primi eclatanti delitti che scandirono lo sviluppo della strategia di contrapposizione frontale allo stato iniziata con l’omicidio Lima, ma di un vero e proprio ricatto allo stato.

Un rafforzamento che ulteriore alimento avrebbe tratto persino dal “congelamento” della trattativa (e più esattamente della prima fase della trattativa che certamente vi fu tra Ciancimino e gli ufficiali del Ros), creando le premesse per il protrarsi e il rinnovarsi della condotta di minaccia, sino alla sua effettiva consumazione (almeno in danno in particolare del governo Ciampi).

La minaccia “consumata” 

Su quest’ultimo punto, per le ragioni che saranno esposte in prosieguo, questa Corte condivide la conclusione cui è pervenuto il giudice di prime cure secondo cui il reato può dirsi consumato in ragione della ricezione della minaccia da parte dell’allora ministro della Giustizia Giovanni Conso.

E la prova ditale ricezione non si ricava solo e tanto dalla decisione di non prorogare i decreti applicativi del 41 bis che andavano a scadere nel mese di novembre del ‘93, un certo numero dei quali interessavano affiliati a Cosa nostra e ad altre organizzazioni criminali di stampo mafioso (una decisione che andava incontro alle pretese estorsive di Cosa nostra, ma che di per sé non sarebbe stata necessaria ai fini del perfezionamento del reato che, essendo configurato come reato di pericolo, non richiede il conseguimento del risultato cui è preordinata la minaccia); ma si evince anche e soprattutto dalle ragioni poste a fondamento di quella decisione: il cui significato effettivo, però, non può intendersi senza considerare che ad essa fece seguito, due mesi dopo, una decisione esattamente speculare del ministro, nel senso di rinnovare in blocco i decreti applicativi del 4 bis che concernevano gli esponenti presumibilmente più pericolosi e di maggiore spicco delle medesime organizzazioni criminali.

Sono le ragioni giustificative di quella scelta a postulare che una fonte avveduta e bene informata delle dinamiche criminali in atto all’interno dell’organizzazione mafiosa più temibile e artefice degli ultimi attentati che avevano insanguinato le strade delle principali città italiane, avesse rappresentato l’opportunità di un gesto di distensione che valesse a far decantare la tensione, nonostante il rischio che venisse interpretato come un segno di debolezza dello Stato e un cedimento al ricatto sotteso alle bombe di Firenze, di Milano e di Roma.

Le difese ravvisano una contraddizione nel ragionamento della Corte di primo grado che, da un lato, afferma di non avere motivo di dubitare della sincerità del Ministro Conso quando ha sostenuto dinanzi alla commissione parlamentare Antimafia, presieduta dal Sentore Pisanu, di non avere mai saputo nulla di trattative con Cosa nostra; dall’altro, afferma che la mancata proroga dei decreti di novembre tradisce una precisa volontà del ministro di compiere un gesto di distensione che favorisse il raggiungimento di un’intesa per la cessazione delle stragi, che era precisamente la finalità della presunta trattativa.

In realtà, per le ragioni già sommariamente anticipate, ma che saranno meglio illustrate in prosieguo, non era affatto necessario che il ministro venisse edotto che vi fossero state già delle interlocuzioni tra esponenti istituzionali ed esponenti mafiosi per giungere ad un accordo fatto di reciproche concessioni e rinunce.

Ma era sufficiente, per poter affermare che gli fu veicolata la minaccia qualificata per cui qui si procede, che un intermediario previamente edotto delle principali rivendicazioni di Cosa nostra — intermediario che le risultanze probatorie conducono a identificare nella persona del Vice direttore generale de dap Francesco Di Maggio, e che a sua volta poteva anche essere ignaro di pregresse interlocuzioni sul tema — gli avesse illustrato la sussistenza di uno specifico collegamento tra gli ultimi attentati e la pretesa dell’organizzazione mafiosa di ottenere un allentamento della stretta carceraria.

Mori e il capo del Dap Di Maggio

Le risultanze acquisite rendono poi più che probabile, e suffragata da un alto grado di credibilità razionale, l’ipotesi che sia stato proprio Mario Mori – che nel curare personalmente i contatti e i rapporti con il Dap si relazionava con il dott. Di Maggio, e con lo stesso ebbe un incontro il 22 ottobre 1993, pochi giorni prima che venisse a scadere la prima tranche dei decreti non prorogati – a rendere edotto il Di Maggio non solo di quel collegamento, ma della necessità/opportunità di operare determinate scelte in relazione a quel collegamento (scelte che però come già anticipato sono molto più complesse e diverse dal mero intento di lanciare un segnale di distensione che mostrasse la disponibilità del governo ad accogliere almeno alcune delle richieste di Cosa nostra).

È vero che la sentenza di primo grado non specifica il modo in cui Mori avrebbe trasmesso la minaccia, affidandosi alla presunzione che ciò sia avvenuto attraverso rapporti instaurati dallo stesso Mori con il dott. Di Maggio — o più esattamente, ripresi dopo che quest’ultimo era stato nominato vice direttore del Dap, con il contributo, secondo il giudice di prime cure, anche di Mori - e i contatti che ebbero sulle problematiche dei detenuti mafiosi (e quindi sul 41 bis).

Non si può quindi del tutto escludere che le richieste estorsive di Cosa nostra abbiano raggiunto il governo in carica, naturale destinatario della minaccia ex an. 338 c.p., nella persona del ministro competente per materia, per una via diversa e autonoma rispetto all’interlocuzione iniziale, incentrata sull’intermediazione di Ciancimino e di Cinà.

E cioè con l’intervento di un fantomatico suggeritore del Di Maggio, diverso da Mori; o direttamente, attraverso il messaggio intimidatorio contenuto negli attentati di Milano e di Roma del 27-28 luglio che si saldavano alla strage di via dei Georgofili in un disegno unitario, condensato nell’espressione coniata da Luciano Violante di “bombe del dialogo”: che, nelle intenzioni dei vertici mafiosi, volevano essere una rinnovazione della minaccia che essi ritenevano essere già pervenuta al governo attraverso il canale di comunicazione aperto con la mediazione di Vito Ciancimino (mentre così non fu).

Un messaggio che però sarà decodificato, non senza contrasti e dissensi almeno inizialmente, dai migliori analisti degli apparati investigativi e di intelligence dell’epoca già a partire da agosto del ‘93, ma che non risulta abbia mai dato luogo a prese di posizioni specifiche e ufficiali del governo, da cui possa desumersi che se ne fosse discusso e che il governo nella sua totalità fosse edotto della minaccia. Sicché la prima prova certa che ciò sia avvenuta risale proprio alle decisioni adottate al ministro Conso.

Ma anche se, come diversi indicatori fattuali convergono a far ritenere, fosse provato invece che fu Mori a informare Di Maggio e convincerlo dell’opportunità di lanciare certi segnali e quindi di adoperarsi a sua volta nei riguardi del ministro Conso per orientarne le scelte (a partire da quella di non prorogare i decreti che scadevano a novembre), coltivando sempre il disegno che aveva intrapreso già nell’estate del ‘92 (e che però, come si vedrà, non fu affatto quello che il primo giudice gli attribuisce), sarebbe comunque provato che la minaccia si consumò in tempi, e con modalità e attraverso vie che non erano quella originariamente divisata dai vertici mafiosi.

Si obbietta quindi che sarebbe intervenuta una serie causale autonoma, idonea a produrre l’evento finale (ovvero l’intimidazione nei riguardi della vittima resa edotta della minaccia) in modo indipendente dall’asserito apporto causale dei carabinieri, che si fa risalire alla sollecitazione al dialogo rivolta a Riina attraverso la mediazione di Ciancimino.

Ma è agevole replicare che ciò farebbe venire meno, a tutto concedere, il nesso causale tra la realizzazione del reato e l’apporto materiale sostanziatosi nell’apertura di un canale di comunicazione attraverso cui veicolare la minaccia (nel senso che non è attraverso quel canale che la minaccia avrebbe raggiunto il suo destinatario). Ma lascerebbe comunque intatto — restando però impregiudicata la questione della sussistenza del dolo di concorso nella minaccia, che schiude un altro capitolo di riflessione e di verifica probatoria – l’apporto di tipo squisitamente istigatorio, ripetutamente evidenziato dal giudice di prime cure.

Per gli autori in senso stretto della minaccia si profilerebbe una sorta di aberratio causae, perché l’evento voluto, e cioè che la minaccia con il correlato effetto intimidatorio pervenisse al governo, si realizzò, ma non nel modo in cui essi lo avevano prefigurato e che ritenevano (errando) si fosse già realizzato, bensì con delle condotte successive che si tradussero, da parte dei mafiosi, in ulteriori atti di violenza stragista mirati, nelle intenzioni dei (nuovi) vertici di Cosa nostra, a rinnovare la minaccia che essi credevano essersi già perfezionatasi, per indurre le autorità di governo a scendere a patti con l’organizzazione mafiosa, riprendendo il filo del dialogo che si era interrotto nell’autunno del’92, quando a Salvatore Riina fu comunicato che la trattativa doveva intendersi sospesa perché le sue richieste erano state ritenute eccessive.

Ma la nuova serie causale, contrariamente all’assunto delle difese, non costituirebbe una causa sopravvenuta e idonea a spezzare il nesso causale con la pregressa condotta dei carabinieri, perché si legherebbe sul piano logico fattuale a quella condotta che aveva suscitato il convincimento che lo stato fosse disponibile a trattare — dopo le prove di terrificante potenza distruttiva che Cosa nostra aveva dato con le stragi di Capaci e di via D’Amelio — e che quella strategia, a suon di bombe e attentati eclatanti, fosse la via più efficace per costringere lo stato a venire a patti o a cedere alle richieste estorsive dei mafiosi.

E come insegna una costante e pacifica giurisprudenza di legittimità, «Sono cause sopravvenute o preesistenti, da sole sufficienti a determinare l’evento, quelle del tutto indipendenti dalla condotta dell’imputato. Ne consegue che non possono essere considerate tali quelle che abbiano causato l’evento in sinergia con la condotta dell’imputato, atteso che venendo a mancare una delle due, l’evento non si sarebbe verificato». [...].

© Riproduzione riservata