«Questa sentenza rappresenta una nuova era, l’era del Me Too italiano, un movimento che parte dalla forza delle donne del mondo dello spettacolo, dalla consapevolezza dei loro diritti negati, delle molestie e violenze sessuali che restano ancora invisibili». Commenta così l’associazione Differenza Donna - che con il collettivo di attrici Amleta ha portato in giudizio uomini che hanno agito violenza su professioniste del settore - la sentenza di condanna di Claudio Marini a 11 anni e 9 mesi per violenza sessuale aggravata. Per l’uomo che si fingeva regista per aggredire sessualmente le attrici convocate ai provini, il pubblico ministero aveva chiesto 9 anni.

I fatti risalgono al 2019 e 2020, quando Marini simulava provini, in una prima fase conoscitivi accogliendo le attrici in uffici normali, per poi, in una seconda fase, portare le donne in appartamenti privati in assenza di altre persone, chiudendo a chiave la porta, e costringendole «con violenza a subire atti sessuali» contro la loro volontà e in alcuni casi inducendole «a compiere atti sessuali», si legge nelle carte del processo.

Fingendosi regista di film fittizi, incaricato di una società inesistente e con falso nome, Marini ha agito violenza su almeno 12 donne, che si sono costituite parte civile nel processo. «Il punto più importante di questo processo è che si tratta di ragazze che non si conoscevano, che hanno denunciato autonomamente, in luoghi diversi e in momenti diversi», spiega a Domani l’avvocata di Differenza Donna, Teresa Manente, che ha difeso alcune delle vittime. «Era seriale, metteva in atto la stessa modalità per tutte, approfittando dell’inesperienza di queste ragazze», continua Manente, traendole in inganno, «umiliandole e ricattandole, dicendo loro che non avrebbero potuto aspirare alla professione di attrici se non avessero acconsentito a compiere atti sessuali». 

Marini è però libero, uscito dal carcere dopo che, per i ritardi del dibattimento, sono scaduti i termini della custodia cautelare. «Chiederemo una misura di prevenzione nei suoi confronti, perché lo riteniamo socialmente pericoloso», dice Manente, evidenziando come non sia stata rispettata la celerità del dibattimento in relazione alla gravità dei reati. 

Il contesto

Le attrici lavorano con il corpo e ciò le espone maggiormente al rischio di abusi e violenze. A questo si aggiunge, sottolinea l’avvocata, «un contesto come quello del cinema e dello spettacolo permeato da pregiudizi e stereotipi sessisti che normalizzano le molestie e le violenze sessuali contro le donne». Lo confermano le segnalazioni raccolte dal collettivo di attrici Amleta, nato con l’obiettivo di contrastare la disparità e la violenza di genere nel mondo dello spettacolo, pubblicate in un rapporto del 2022, che dimostrano come il corpo di chi lavora nel mondo dell’arte venga considerato un corpo disponibile. 

A ciò si aggiunge la precarietà del lavoro, che espone maggiormente le donne al «ricatto di registi e produttori che usano la propria posizione di potere per esercitare violenze e molestie sessuali contro le donne», ha detto l’avvocata in udienza. 

Lavoro collettivo

Le associazioni Differenza Donna, attiva nel contrasto alla violenza di genere, e Amleta stanno portando avanti un lavoro collettivo di emersione della cultura sessista che caratterizza, come tutti i settori lavorativi, anche il mondo del cinema e dello spettacolo. 

«I magistrati hanno accolto tutto il lavoro che ha fatto l’avvocata per cercare di liberare la lettura di questo caso dagli stereotipi che si abbattono sulle attrici», spiega a Domani Cinzia Spanò, presidente di Amleta, «questa è la cosa che noi riteniamo storica di questa sentenza». Spanò evidenzia la novità di questa decisione, che non ha riprodotto gli stereotipi di genere, ma ha riconosciuto il fatto che le attrici lavorino con il corpo e che si debbano fidare e affidare ai registi, oltre all’esista di una sproporzione di potere tra il regista e l’attrice.

Le associazioni la definiscono quindi una sentenza storica, in una giornata in cui, conclude Spanò, «festeggiamo la fine di una banalizzazione della violenza che si è abbattuta per decenni sui nostri corpi».

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