L’Italia si ricorda dei suoi terremoti per poche settimane dopo una tragedia oppure in occasione degli anniversari. In campo sismologico la memoria è fondamentale perché è grazie alla storia millenaria dei terremoti che possiamo valutare il rischio incombente sulle regioni italiane. In campo politico ci aiuta a ricordare le occasioni perdute e quelle che non possiamo più perdere.

Pochi giorni dopo il sisma del 23 novembre 1980 gli scienziati Franco Barberi e Giuseppe Grandori, che a quel tempo guidavano il Progetto Finalizzato Geodinamica del Cnr, lessero in Senato, alla presenza del presidente della Repubblica Sandro Pertini un documento che mantiene, a 40 anni di distanza, un’attualità sconvolgente.

«Ci si renda conto una volta per tutte – dissero – che mentre nelle zone colpite dal terremoto del 23 novembre scorso non è ancora superata la fase di emergenza, già siamo in situazione di pre-emergenza in altre zone sismiche del paese, dove tra pochi mesi o pochi anni il terremoto colpirà ancora».

Non è cambiato molto da allora. Ogni volta che si verifica un evento forte, il paese paga un conto salatissimo in denaro e, soprattutto, in vite perse. E si resta fermi in attesa del prossimo appuntamento con la distruzione.

Alcuni numeri: dal 1900 a oggi abbiamo avuto 104 terremoti di magnitudo pari o superiore a 5 (circa 1 all’anno in media) e 18 terremoti di magnitudo pari o superiore a 6 (circa 1 ogni 10 anni). Il numero di morti in questi 120 anni è di circa 120mila persone, mille all’anno. In termini economici, i terremoti dal Belice (1968) a oggi sono costati a tutta la comunità circa 160 miliardi di euro, tre miliardi all’anno.

Le ragioni

I motivi per i quali dopo ogni terremoto piangiamo vittime sono dovuti certamente alle caratteristiche del nostro territorio, ma anche alla qualità del costruito e allo stato di manutenzione.

Terremoti di magnitudo tra 4,5 e 5, che quasi ovunque nel mondo non provocherebbe alcun effetto significativo, in Italia sono in grado di danneggiare edifici antichi o mal costruiti; la storia recente è piena di episodi del genere. Gli edifici in cui oggi abitiamo in Italia sono stati costruiti per il 70 per cento prima del 1980, vale a dire in assenza di norme antisismiche moderne.

Ormai è evidente per chiunque che l’unica strada per ridurre il rischio sismico è la prevenzione, cioè gli interventi tesi a ridurre la vulnerabilità degli edifici. Ma la scienza e la politica lo sanno già il 23 novembre 1980, quando un terremoto di magnitudo 6,9 distrugge un’area molto estesa in Campania e Basilicata.

Tutto il paese rimane sotto choc per le notizie e le immagini che arrivano da quel territorio e per le difficoltà dei soccorsi. All’indignazione dei cittadini danno voce il presidente Sandro Pertini e il papa Giovanni Paolo II che si recano in zona dopo pochi giorni e hanno parole durissime per la situazione che trovano.

Ha fatto epoca lo sfogo televisivo di Pertini che, giunto nelle aree colpite dal terremoto, aveva scoperto di essere arrivato prima dei soccorsi.

Sull’onda dell’emozione provocata, il tema delle politiche di riduzione del rischio sismico viene affrontato il 10 dicembre 1980 in una riunione delle commissioni parlamentari interessate. È in quell’occasione, alla presenza davvero insolita del presidente della Repubblica, che i professori Franco Barberi e Giuseppe Grandori fanno la loro relazione, della quale è ancora utile ricordare alcuni passaggi chiave.

Foto Il Mattino

La relazione

Il primo è di massima attualità perché racconta del difficile rapporto tra la scienza e quelli che oggi si chiamano decision makers. Di fronte all’inerzia dello stato, la comunità scientifica decise di assumersi una enorme responsabilità che non le spettava.

«Dopo un ultimo contatto con il ministero dei Lavori pubblici nell’aprile 1980, gli operatori del Progetto finalizzato geodinamica hanno maturato la convinzione che la burocrazia dello stato e il potere politico non erano in grado di acquisire in tempi ragionevoli la necessaria coscienza dei termini del problema. Di fronte alla gravità della situazione, gli operatori del Progetto hanno deciso di assumersi la piena responsabilità di proporre un preciso criterio decisionale e il conseguente elenco dei comuni da includere fra quelli considerati sismici ai fini delle norme costruttive».

Barberi e Grandori spiegano poi come investire in prevenzione sia l’unica strada percorribile per salvare vite umane, proponendo un conto che è ancora sostanzialmente valido.

«Si considerino i due seguenti casi-limite. Nel primo caso si supponga che tutte le costruzioni presenti nelle zone sismiche del territorio nazionale siano eseguite con tecniche moderne ma senza tener conto delle azioni sismiche. È da attendersi in tal caso un elevato numero di vittime. Inoltre l’ammontare dei danni materiali attesi si può stimare compreso fra i 1.000 e i 1.500 miliardi (di lire) all’anno.

Nel secondo caso si supponga invece che tutte le costruzioni precedentemente considerate siano eseguite con il livello di resistenza previsto dalle norme attualmente vigenti per le nuove costruzioni e adottando le concezioni strutturali e i dettagli costruttivi che la buona regola dell’arte suggerisce. Il numero atteso di vittime risulta in questo caso drasticamente ridotto rispetto al caso precedente. Quanto al costo monetario, derivante dalla somma dei danni attesi (assai minori rispetto al caso precedente) e dell’extra-costo iniziale delle costruzioni rispetto al caso di assenza di normativa sismica, si può stimare che esso sia ancora compreso fra i 1.000 e i 1.500 miliardi annui.

Si può dunque dire che il non difendersi dai terremoti, oppure il difendersi al livello di protezione previsto dalle norme attuali, sono due politiche che conducono, alla lunga, a costi monetari dello stesso ordine di grandezza. Ma la seconda politica riduce di molto il numero di vittime atteso».

La prevenzione

Oggi tutta la comunità scientifica internazionale concorda su questo punto: investire in prevenzione sismica riduce il numero di vittime e salva il valore economico di edifici. Però in Italia non si fa ancora, dopo 40 anni. E c’è infatti un terzo passaggio da ricordare in quella relazione.

«Perché la tragedia della Campania e della Basilicata possa trasformarsi in una lezione positiva occorre che il paese, a tutti i livelli, dalla classe politica, alle forze sociali, agli organi di informazione, ai singoli cittadini, prenda definitivamente coscienza che i terremoti sono una componente costante della vita nazionale, tra pochi mesi o pochi anni e il terremoto colpirà ancora».

Questa frase assume un significato particolare se si considera che 32 anni dopo Barberi sarebbe stato accusato di aver “rassicurato” la popolazione sul reale rischio sismico incombente e perciò condannato in primo grado a 6 anni di carcere. Barberi e gli altri sismologi coinvolti sono stati poi assolti in appello e in Cassazione.

Ma quel processo ha contribuito alla confusione, spostando l’attenzione dalla prevenzione al tema futuribile della previsione dei terremoti, dimenticando che, quando mai sapremo prevedere le scosse, senza adeguamento antisismico case e fabbriche crollerebbero lo stesso.

È stato accusato di aver «sbagliato la previsione» il rappresentante di una comunità scientifica ampia che da decenni ha scelto la comunicazione dei rischi legati al terremoto come strumento principale per creare consapevolezza in coloro che vivono in zona sismica.

Ciò che Barberi e Grandori hanno detto 40 anni fa all’indomani del terremoto dell’Irpinia può essere sottoscritto oggi da chiunque studi i terremoti e come ci si può difendere da essi: sappiamo che altre zone in Italia nei prossimi anni sperimenteranno un terremoto e la comunità nazionale si troverà ancora una volta impreparata. Per ridurre la vulnerabilità degli edifici ci vogliono decenni.

Se avessimo iniziato 40 anni fa avremmo forse salvato molte vite all’Aquila e ad Amatrice. E gli studi più aggiornati delle organizzazioni internazionali ci dicono che ogni singolo euro investito in prevenzione ne fa risparmiare cinque sulla ricostruzione. Ma, oggi come 40 anni fa, la comunità scientifica non riesce a farsi ascoltare da un sistema politico che guarda solo ai prossimi mesi.

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