Un viaggio nella memoria femminile, tra scrittrici dimenticate e antenate spirituali, per riscoprire radici, costruire genealogie e restituire senso e visione a una storia troppo a lungo narrata da un solo sguardo. Un atto d’amore, di studio e di resistenza
Questo articolo è tratto dal nostro mensile Finzioni, disponibile sulla app di Domani e in edicola
Quando si parla di donne si parla spesso di mancanze. Donne che sono mancate al discorso pubblico per secoli, alla politica, alla storia, all’arte, o dovremmo dire donne che esistevano ma sono state rimosse, sono state messe in condizione di essere insufficienti. Cosa ci ha spinte e ci spinge oggi a provare a colmare questa carenza a lungo pensata come irrimediabile e naturale? Qual è il movente per questa ricerca e a cosa ci conduce?
La missione
Non basta infatti un obiettivo fattuale e compilativo per spiegare la necessità che tante sentono nella riscoperta, e di certo non è d’aiuto per capire le ragioni profonde di questa riemersione pensare alle mode editoriali correnti che stanno portando in libreria tomi su tomi dedicati a figure femminile decisamente poco note. Qualcosa che da una nicchia viene scoperto e proposto al grande pubblico, fino a diventare una tendenza, perde in questo spostamento spesso sua credibilità, il suo impatto rivoluzionario.
Nel 1983 Sandra Petrignani intervistò Anna Maria Ortese, quando lei ormai rilasciava pochissimi interventi pubblici. Questo scambio è contenuto nel volume Le signore della scrittura (ripubblicato in questi anni dalla Tartaruga, casa editrice diretta da Claudia Durastanti). Ortese ci mise quattro mesi a rispondere per lettera alle domande di Petrignani, ci ragionò su a lungo. Alla domanda di Petrignani: «Di cosa si sente più la mancanza nel nostro paese?».
Ortese rispose: «Manca lo spazio mentale, la vita mentale. Mancano la solitudine, il silenzio, l’ombra, la concezione della natura come grandezza, del tempo come sogno, della vita come giudizio. Mancano memoria e pietà. La gente non ha nozione del tempo, non sa nulla del suo svanire, non stabilisce confronti con nulla. Vive! Ma questo vivere senza più storia (o memoria), né coscienza di colpa, che non sia la stretta colpa religiosa o politica, non consente mai crescita. Perché la “crescita” riguarda i tuoi rapporti – e il loro maturare – con te stesso, con la terra, col mondo. Vi è dolore nel mondo. Vi è segreto. Vi è scopo. Chiarirlo è impossibile; vederlo è necessario. Crescere significa vederlo, e per quanto sta in noi, affrontarlo».
Emergono qui – oltre al recupero di una passione sincera per la natura e il suo vivere, che è al centro della poetica della scrittrice di L’iguana – la mancanza dell’ombra, del silenzio e della memoria che sono elementi basilare su cui costruire un’idea di futuro: ciò che è stato rimosso, ciò che non è stato detto, ciò che è stato dimenticato. Nella natura, nel mondo (aggiungerei nella Storia), vi è un segreto che non si può chiarire, ma che va visto, va cercato. Una missione non da poco, che scende dritta alle viscere del nostro agire morale e politico: impostare il divenire collettivo partendo dallo scavo, dall’archeologia.
Gli strumenti
La femminista spirituale Hallie Iglehart, scrittrice, insegnante e attivista, parla di “strumenti” per un arricchimento della visione femminista e tra questi indica anche il lavoro da fare sulla vita onirica, quindi sul nostro immaginario incontrollabile ma fecondo, sulla mitologia personale e sullo studio della storia matriarcale, della storia delle donne e dei suoi movimenti. Ma cosa vuol dire costruire una propria mitologia personale e come accade nelle donne questa costruzione? Se penso alla me studentessa, per esempio, non ricordo di essermi mai accorta, mentre costruivo i miei punti di riferimento letterari e culturali, della quasi totale assenza in questo pantheon delle donne: ero io poco attenta oppure non le avevo mai incontrate sul mio cammino? Come ha spiegato Susan Sontag in Sulle donne i pochi nomi di donne presenti nei discorsi scolastici – Giovanna D’Arco, George Eliot, Marie Curie, Rosa Luxemburg – sono quelli a cui sono state attribuite caratteristiche quali «energia, intelligenza, caparbietà e coraggio” pensate dalla cultura patriarcale come “maschili», e sono quindi da considerarsi assoggettate alla nominazione oppressiva.
In ritardo ho iniziato a rendermi conto di certe dinamiche culturali, e mi sono fatta le giuste domande solo quando mi sono appassionata della nostra letteratura del Novecento per lavorare a una collana editoriale. Lì è scoppiata la mia bomba: esistevano tantissime scrittrici e nessuno le aveva mai menzionate, era stato necessario andarle a cercare e trovare altre che le conoscessero e che potessero insegnarmi qualcosa su di loro, discuterne con me.
Guide spirituali
Questo lavorio – il passaggio dall’ignoranza alla conoscenza – ha significato per me fondare una mia spiritualità, completamente laica, che ha le sue basi in queste figure, le quali attraverso la lettura e lo studio si sono trasformate in riferimenti interiori.
Posso dire con certezza che le mie guide spirituali siano infatti tutte le scrittrici e le pensatrici che sono vissute nel corso della storia e che nell’ombra spesso sono state relegate ma che dell’ombra hanno anche fatto un punto di osservazione della realtà, della società umana. E sono riuscite quindi a raccontarla con uno sguardo obliquo, di sguincio, che ha permesso alle cose di rendersi diversamente manifeste.
Queste scrittrici, tra quelle che ho letto e quelle che ancora devo leggere, sono parte della mia persona, sono le mie antenate. Hanno quindi un ruolo sacro, sono le mie Lari dell’antica Roma, dee del focolare intorno al quale costruisco la mia casa.
Il lavoro sulla memoria non ha niente a che fare con la moda, con la semplicità a volte sciocca dei social o con il voler attirare la vendita delle copie in libreria. La memoria è un lavoro raffinato, intimo. È l’investimento per la creazione del nostro albero genealogico, un albero mai secco, ma sempre rigoglioso a cui dare acqua spesso e sotto le cui foglie prendere pausa dal mondo, trovare ristoro.
Le scrittrici, arrampicate sui rami, me le sono sempre immaginate con le gambe a penzoloni: Elsa Morante e il suo foulard allacciato sotto al mento, Natalia Ginzburg e il taglio cortissimo dei capelli, Mercé Rodoreda e l’acconciatura bianca e composta, Zora Hurston e il cappello di feltro calcato, Laudomia Bonanni e le braccia forti da maestra di montagna, Aurora Venturini e il sorrisetto beffardo e potrei continuare a lungo, fino alle ultime fronde.
La genealogia
Nessuno mi ha insegnato che potevo formare il mio spirito leggendo queste scrittrici, nessuno mi ha mai detto che essere donne vuol dire sopravvivere all’ombra e abitarla con dedizione, che la nostra memoria non è scontata o data, ma la dobbiamo coltivare, dobbiamo lottare per mantenerla e sostenerla. Ogni libro di donna che scopro e che apprezzo sento di volerlo onorare, ogni riga che leggo è una opportuna preghiera alla mia crescita e alla mia comprensione di chi sono e di chi non voglio essere.
Non credo si possa più parlare di femminismo senza memoria, senza genealogia, senza mitologia personale e collettiva, senza luoghi del ricordo e dello studio, senza archivi, senza faldoni ben riposti e consultabili, senza biblioteche, senza l’affaccendarsi di tutte per tenere le nostre madri spirituali al sicuro. Le donne che amiamo, infatti, vanno protette, ricordate e sognate, rese parte del nostro inconscio, del nostro sé più profondo, che è basale, fondante e non è mai sostituibile. Vanno protette da chi le vuole ancora sminuire, da chi non vede l’ora di farle tornare nell’oblio e da chi non crede nella loro forza costruttiva e generativa. Non ho mai inteso scendere a compromessi sulle mie antenate, barattarle con altro o lasciare che vengano vendute al miglior offerente. Niente si può dare in permuta dei nostri rami e delle nostre foglie, niente, neanche la nostra singola scrittura, ha più valore di tutto il tempo che dedichiamo alla memoria delle altre, alle loro tracce.
Faccio mie alcune parole di Lalla Romano a proposito della sua raccolta Dall’ombra in cui faceva riemergere le figure del suo passato d’infanzia a Cuneo, le tirava fuori dalla memoria. «Dall’ombra escono vite (persone) che ho in qualche modo amato, che mi hanno offerto un aspetto misterioso ma intensamente espressivo della segreta forza della nostre vite».
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