«Il carcere è senza respiro», scrive il presidente dell’associazione Antigone, Patrizio Gonnella, nell’editoriale che apre il XXI rapporto sulle condizioni di detenzione. È un grido che non lascia spazio all’ambiguità. Non respira chi vive dietro le sbarre. Non respira chi vi lavora, né chi dovrebbe garantire diritti, assistenza, educazione, legalità. E non respira più nemmeno la Costituzione. Il sistema penitenziario italiano è sull’orlo di una crisi sistemica e culturale, una crisi che non si limita a numeri e percentuali, ma scava dentro il senso stesso della pena e della giustizia.

Il titolo scelto da Antigone, “Senza respiro”, restituisce un’immagine concreta fatta di corpi ammassati in celle chiuse, spazi inadeguati, tensione alle stelle, sofferenza generalizzata, condizioni igieniche e sanitarie inaccettabili, educatori stanchi, poliziotti in difficoltà, direttori provati, medici preoccupati, volontari a malapena tollerati».

Emergenza sovraffollamento

Al 30 aprile 2025, nelle carceri italiane si contavano 62.445 persone, ma i posti regolamentari disponibili erano appena 51.280. In realtà, se si considerano quelli effettivamente agibili – tolti i 4.500 inagibili per lavori o degrado – il tasso di affollamento reale arriva al 133 per cento. È una media, e come ogni media, nasconde gli estremi: a Milano il carcere di San Vittore tocca addirittura il 220 per cento. Delle 189 carceri italiane quelle non sovraffollate sono ormai solo 36, mentre quelle con un tasso di affollamento uguale o superiore al 150 per cento sono ormai 58.

Questa tendenza si sta aggravando. Negli ultimi due anni, i detenuti sono aumentati di 5.000 unità, mentre la capienza è calata di 900 posti. Un nuovo carcere da 300 posti “si riempie” ogni due mesi. Eppure la risposta dello stato resta sempre la stessa: costruire. Ma un carcere costa in media 30 milioni di euro, senza contare il personale. L’ultima trovata sono padiglioni prefabbricati, già sovraffollati da progetto: 5 mq per detenuto, in blocchi standardizzati da quattro letti. Una toppa su una ferita profonda.

Il decreto che soffoca i diritti

Il decreto sicurezza approvato ad aprile 2025 ha introdotto il nuovo reato di “rivolta penitenziaria”, che punisce anche la resistenza passiva. È un attacco diretto al diritto di protesta: bastano quattro detenuti che si rifiutano di rientrare in cella per rischiare anni di pena aggiuntiva. Secondo Antigone, solo nei primi quattro mesi del 2025, 80 detenuti hanno accumulato 400 anni di carcere in più.

È un segnale chiaro: la repressione è l’unica grammatica penitenziaria rimasta. Le pene si allungano, le misure alternative si riducono, il dissenso viene criminalizzato. Ma i numeri della criminalità raccontano tutt’altra storia: negli ultimi cinque anni i reati sono in calo. Gli omicidi, in particolare, sono diminuiti del 32,8 per cento dal 2015 e del 7,6 per cento solo nell’ultimo anno.

Pene brevi, donne e minori: un sistema al collasso

Il 51 per cento dei condannati ha meno di tre anni da scontare e in molti casi, meno di uno. Sono detenuti spesso poveri, tossicodipendenti, senza avvocato o sostegno sociale. Per legge, potrebbero accedere a misure alternative, ma nella pratica restano dentro. Per loro, la detenzione è una pena senza scopo: non rieduca, non reintegra, non ripara.

A fine 2024, 1.373 persone scontavano una pena inferiore a un anno. Un numero che pare piccolo ma si traduce in un turnover altissimo e in una quotidiana ingiustizia. Questi detenuti potrebbero essere fuori, seguiti dai servizi, reinseriti. Invece costano, intasano, peggiorano le condizioni di tutti.

Nel circuito minorile, la situazione è altrettanto allarmante. I ragazzi detenuti sono arrivati a 611 (di cui 27 ragazze), un triste record. Tra questi, circa la metà sono stranieri non accompagnati. Il 65 per cento è in custodia cautelare, e tra i minorenni la percentuale sale all’81 per cento. Il decreto Caivano ha reso possibile trasferire i maggiorenni nelle carceri per adulti, spezzando ogni continuità educativa. La norma ha poi avuto un altro effetto devastante per la giustizia minorile: dalla sua entrata in vigore ben 9 istituti per minorenni su 17 soffrono di sovraffollamento. Mai prima si era registrato un dato simile.

Cresce anche l’uso massiccio di psicofarmaci tra i detenuti minorenni. A Nisida, l’aumento è stato del 352 per cento in tre anni. Al Beccaria di Milano, nel 2023, l’uso di antipsicotici è stato 8 volte superiore rispetto a Bologna. Antigone denuncia celle in cui intere sezioni di ragazzi dormono durante le ore scolastiche. Un cortocircuito totale tra educazione e repressione.

Anche le donne (che rappresentano il 4,3 per cento della popolazione carceraria) pagano un prezzo alto. L’80 per cento è recluso in sezioni femminili di carceri maschili, isolate e prive di attività. Il decreto sicurezza ha cancellato il rinvio pena per le madri con figli sotto l’anno. Oggi, 11 bambini vivono dietro le sbarre. E se la madre “non si comporta bene”, può essere separata da loro. Si punisce non il reato, ma la maternità.

Tre proposte per ripartire

Per restituire respiro al sistema penitenziario, l’associazione Antigone propone un cambio di rotta immediato, concreto e attuabile. La prima strada è «un atto generale di clemenza»: un’amnistia limitata alle pene residue inferiori ai due anni, che consentirebbe l’uscita immediata di oltre 17.000 detenuti, alleggerendo drasticamente il sovraffollamento. A questo si aggiunge la possibilità di provvedimenti collettivi di grazia o misure alternative, attivabili direttamente dai consigli di disciplina degli istituti. Infine, una regola semplice quanto rivoluzionaria: vietare nuovi ingressi in carcere se non esistono posti regolamentari disponibili. Non sono utopie, ma strumenti già previsti dalla legge, basterebbe solo il coraggio di applicarli.

Un carcere più umano è possibile

Il rapporto si chiude con una nota di speranza. La Corte costituzionale ha finalmente riconosciuto il diritto alla sessualità in carcere. Non più un privilegio, ma un diritto umano. Si regolano i colloqui intimi senza controllo visivo. È un passo avanti, ma rischia di restare simbolico se le strutture non lo rendono possibile.

In carcere oggi si gioca una partita fondamentale per la tenuta della democrazia. Un sistema che annienta, che nega diritti, che trasforma gli ultimi in nemici, tradisce il patto costituzionale. Il carcere non è una trincea, ricorda Antigone, «chi usa toni militareschi o guerrafondai per orientare e gestire la vita carceraria commette un gravissimo atto di insubordinazione costituzionale che renderà durissima la vita degli stessi poliziotti».

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