Allo Spazio Rossellini di Roma lo spettacolo Olympe della compagnia attiva nel carcere di Rebibbia. Su 150 donne che in 12 anni hanno partecipato, solo due sono rientrate nell’istituto penitenziario, registrando un livello di recidiva vicino allo zero: «Il teatro ha un potere trasformativo su queste ragazze». Le loro testimonianze
Via della Lungara 19, secondo piano. Il corridoio è lungo, scuro, deserto. Stanza 105. Il cartellino sulla porta bianca recita: Sala Movimento. Parquet, luci soffuse, specchio su tutta la parete di fronte. Siamo nella sala prove. Capelli ricci, dinamismo esuberante, Francesca Tricarico, la regista, dirige il training. Scalze, camminando nella piccola sala prove, le attrici si muovono spasmodicamente per tutto lo spazio. Poi la calma. Sdraiate sul pavimento, rilassano occhi e muscoli prima di cominciare. Sulle loro maglie nere a maniche corte il nome della compagnia: Le Donne del Muro Alto.
Sono le prove generali di Olympe, lo spettacolo che portano in scena allo Spazio Rossellini di Roma. Ci sono solo quattro sedie a comporre la scenografia. Le attrici fingono con padronanza di utilizzare gli oggetti che utilizzano in scena: un tavolo, un letto, utensili da cucina, una scopa.
Le prove
«Questo nome nasce nella sezione alta sicurezza di Rebibbia, una sezione più chiusa delle altre: un muro nel muro» ci spiega Tricarico, fondatrice nel 2013 della compagnia in carcere. Tutto è iniziato quell’anno con un laboratorio che da 12 anni replica nella sezione femminile di Rebibbia. Le detenute partecipano «per uscire dalla cella, per non stare in sezione, per tenere la testa e il tempo impegnato» ci dice Bruna Arceri, 55 anni.
Capelli chiari, sguardo risoluto, è un’attrice delle Donne del Muro Alto dal 2018. Lei è la snob del gruppo. L’hanno soprannominata così nella sezione femminile del carcere di Rebibbia il terzo giorno e da quel momento in poi quel soprannome non l’ha più lasciata. Recitare le ha permesso di evadere dalla detenzione.
Per lei Olympe è «qualcosa di eccezionale. Un testo molto importante per le donne, per i più deboli, i più fragili, gli emarginati». Arceri interpreta Olympe de Gouges, paladina dell’emancipazione femminile durante la Rivoluzione francese, autrice della Dichiarazione dei diritti della donna e della cittadina, e ghigliottinata da Robespierre nel 1793 per essersi opposta al nuovo governo.
«Il carcere è un luogo di detenzione a dimensione d’uomo. Le donne che stanno in carcere spesso hanno gran parte della famiglia detenuta» dice Tricarico. «Un uomo ha sempre una mamma, una sorella, una cugina, una scema come noi che lo va a trovare, le donne no». Alcune donne hanno dei figli e il rapporto con loro durante la detenzione è difficile.
Daniela Savu, 42 anni, capelli ramati, sorriso stanco, è un’attrice dal 2017. Alle sue figlie non diceva di essere in carcere: «Non potevo spiegare loro come stavano davvero le cose con un’ora o due di colloquio. Non accettavo di parlare al telefono con loro perché in 10 minuti di telefonata che puoi dire?».
Quando è uscita le ha portate a vedere Medea, lo spettacolo in cui interpretava la protagonista: «Loro mi hanno chiesto perché volessi fare teatro anche fuori dal carcere e io ho risposto che volevo far capire alla gente che non siamo soltanto ex-detenute». Savu ha deciso di continuare anche dopo la libertà perché del teatro non ha più potuto fare a meno.
Anche per Betty Guevara, 58 anni, labbra carnose e sorriso solare, il teatro è parte fondamentale della sua vita. È in misura alternativa alla detenzione, quella condizione per cui la pena del reato commesso viene scontata fuori dal carcere ad altre condizioni. Per lei fare teatro con la compagnia di ex-detenute è un modo per riprendersi la vita: «Io sono recidiva e lotto per non ricaderci nuovamente, per me è un percorso molto educativo. Non voglio più sbagliare, perché ho visto che ho perso tanto. Ho perso una parte della mia vita. Ho perso i miei affetti».
«Noi siamo per l'inclusione e accettiamo anche chi non è stato in carcere» dice scherzosamente Arceri riferendosi a Chiara Ferri e Raquel Electra Robaina Tort, attrici della compagnia. Chiara Ferri, 25 anni, è entrata da tirocinante durante gli anni dell’università. Per i primi sei mesi ha assistito alle prove da ascoltatrice, poi Tricarico le ha dato la possibilità di fare una piccola parte.
Da quel momento non ha più lasciato la compagnia, che ha dato una nuova forma alla sua esistenza. Grazie alle Donne del Muro Alto ha capito quanto «dentro ciascuno di noi ci sia tutto, sia nel bene che nel male». Raquel, invece, è stata chiamata per una sostituzione nel 2020.
Lei è il jolly della compagnia, sa a memoria la parte di tutti per sopperire alle assenze improvvise. Il suo primo spettacolo è stato Ramona e Giulietta, incentrato sull’amore omosessuale: «Dopo averlo visto per la prima volta sono rimasta zitta e sono tornata a casa carica di emozione».
Si va in scena
Quando varchiamo la soglia dello Spazio Rossellini di Roma Betty Guevara è indaffarata con gli ultimi preparativi: in Olympe non è di scena. La sala è gremita, le attrici sono già pronte. Indossano abiti lunghi e neri che ricordano quelli della Francia rivoluzionaria.
Francesca Tricarico si sposta rapidamente tra la postazione di regia e le maestranze che le chiedono l’ultima autorevole parola. Olympe inizia, le attrici entrano alle spalle della platea, ricordando i Sei personaggi in cerca d’autore. Gli spettatori sentono le loro voci e si girano ora da un lato ora dall’altro. L’attenzione è altissima. Una dopo l’altra Raquel Electra Robaina Tort, Bruna Arceri, Daniela Savu e Chiara Ferri si alternano in platea con un monologo per poi salire sul palco a comporre la scena e calarsi nella Francia del diciottesimo secolo, ognuna al proprio posto.
Olympe dura poco più di un’ora. Sul finale, spinte dalla musica, tutte e quattro gridano all’unisono «Libertà! Libertà! Libertà!». Poi il silenzio. Non appena finisce, un lungo applauso accoglie l’inchino della compagnia.
La platea è composta da alunni di quarto e quinto liceo. Provengono quasi tutti dal Blaise Pascal di Pomezia. Molti ci raccontano di essere rimasti stupiti dallo spettacolo. Christian, occhiali squadrati e codino biondo, confessa di aver affrontato la partenza della mattina come una gita scolastica.
Eppure, l’esperienza l’ha segnato: «Spesso consideriamo i detenuti come degli estranei. Subito ci viene da pensare che siano venuti da un’altra parte del mondo e non vogliamo averci niente a che fare. Questo spettacolo mi ha fatto capire che sono persone come noi».
La professoressa Barbara Zadra spiega che da anni il liceo Pascal porta avanti il progetto Libertà e Carcere, per osservare da un punto di vista differente l’esperienza carceraria: «Attraverso le forti emozioni provocate dal testo, dalla recitazione e dalla testimonianza delle attrici, spettacoli come questo scardinano molti pregiudizi».
Mentre la sala si svuota raggiungiamo Daniele Tagliaferri, assistente di Tricarico da un anno e mezzo, indaffarato a smontare le scenografie. Partecipa sia ai laboratori in carcere, sia alle attività della compagnia di ex-detenute.
Ci racconta che lavorano a una riscrittura della Bisbetica domata di Shakespeare nel laboratorio che stanno conducendo in questi mesi a Rebibbia: «Mi stupisce sempre, in ogni laboratorio, il potere trasformativo che ha il teatro su queste ragazze».
Il teatro trasforma. Lo conferma il campione di 150 donne che in 12 anni Tricarico ha conosciuto. Di queste soltanto due sono rientrate in carcere, registrando un livello di recidiva vicino allo zero. Per i detenuti che non hanno svolto alcuna attività la percentuale si alza al 60 per cento. Una differenza notevole che lascia dedurre quanto le attività teatrali facciano bene alle detenute e ai detenuti.
Per Tricarico non è stato facile dirigere i laboratori in carcere: «La parte più difficile è guadagnare la loro fiducia. Se chiedi loro di essere vere, di spogliarsi, non puoi mentire, devi spogliarti anche tu. Il nostro teatro è fatto di verità».
Tricarico deve andare dalle sue ragazze in camerino. Prima di uscire ci lascia con un’ultima battuta: «Se osservi il carcere, osservi te stesso e il mondo che ti circonda. Se scegli di guardarlo davvero, ti puoi guardare dentro».
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