Noi italiani oggi siamo portati a credere che lo street food sia solo una moda importata dall’America, dove grandi camion trasformati in vere e proprie cucine viaggianti o i piccoli carretti che vendono hot dog sono una parte fondamentale del sistema di ristorazione di tutti gli Stati Uniti, fino a diventare un elemento importante di quel panorama urbano.

In realtà, mangiare per strada cibi già cotti era la normalità nelle nostre città dall’antichità fino alla fine del Settecento; circa duemila anni durante i quali la maggior parte di coloro che vivevano all’interno delle mura urbane raramente si cucinava qualcosa in casa e il più delle volte acquistava qualche piatto già pronto, possibilmente da consumare subito e senza l’uso di posate, che del resto ben pochi possedevano.

Un bel pezzo di quella che consideriamo tradizione gastronomica italiana nasce proprio come cibo da strada, basti pensare alla pizza e la stessa pasta, che oggi sono veri e propri simboli dell’italianità a tavola, che sono nati nelle strette vie di Napoli, per rispondere alle esigenze alimentari di una popolazione molto povera in grande espansione, che viveva in case non solo prive di cucina, ma anche sprovviste di qualunque strumento che avesse a che fare con la preparazione del cibo.

I napoletani erano detti da sempre “mangiafoglie”, perché erano soliti nutrirsi di vegetali crudi, ma nel corso del Seicento divennero “mangiamaccheroni”, più che altro per motivi economici e fiscali. In ogni caso si trattava di un modello alimentare che non prevedeva cotture da parte del consumatore e soprattutto non prevedeva l’uso di posate: i maccheroni e la pizza, come l’insalata, si mangiavano per strada con le mani.

Anche l’altro grande simbolo dello street food made in Usa., vale a dire l’hamburger, ha illustri precedenti nel modello alimentare delle città italiane prima della rivoluzione industriale. E qui il ruolo centrale lo giocavano le macellerie.

Il primo hamburger

Nel medioevo e nell’età moderna, la macelleria non era solo il posto in cui gli animali venivano abbattuti e ne veniva venduta la carne, ma era soprattutto il punto di partenza e di incrocio tra attività molto diverse dal punto di vista tecnologico e dei mercati di sbocco, eppure fortemente interconnesse. Il prezzo della carne che veniva venduta in città era quindi legato all’andamento di altri settori economici, come la concia delle pelli, la produzione di candele e sapone, quella del formaggio, fino alla fabbricazione di pettini e di altri piccoli oggetti realizzati con i corni o le ossa e che avevano un loro mercato.

In questo sistema complesso svolgevano un ruolo importante alcuni tipi di commercianti che si rifornivano anch’essi in macelleria, ma la cui attività doveva rimanere completamente separata da quella dei macellai; vale a dire i trippai, i lampredottai, i venditori di milza e di tutti gli altri organi e frattaglie. Si trattava per lo più di un commercio ambulante e che si rivolgeva a una fascia di consumatori medio-bassa. Ma, come già detto, questi consumatori quasi sempre vivevano in case prive di tutto e in qualche caso una casa non ce l’avevano proprio. Inoltre, le frattaglie si conservano meno facilmente degli altri tagli di carne; tutto questo portò quasi naturalmente alla vendita di piatti già cotti, invece che alla vendita di frattaglie crude.

Questi venditori ambulanti erano quindi gli ennesimi protagonisti dello street food pre-industriale. Questo pezzo di economia era talmente importante che ai macellai veniva fatto espressamente divieto di vendere carne cotta. In questo modo era possibile esercitare un controllo prima dell’abbattimento dell’animale e anche dopo il taglio della carne. Solo gli osti o i venditori ambulanti di cibo pronto potevano smerciare carne cotta. La parcellizzazione della filiera era lo strumento principale di salvaguardia della trasparenza del mercato e quindi a garanzia del consumatore.

Cose da poveri

Tutto questo, ovviamente, creò un forte pregiudizio nei confronti di questi prodotti. Pasta, pizza e frattaglie erano cose da poveri, anzi da disperati. A fine Ottocento il solito Artusi, nel dare qualche ricetta, poche in verità, su come cucinare alcune frattaglie, quasi si scusa di inserire rognoni, cervella e trippa nel suo libro di ricette destinate alla borghesia urbana in ascesa. Parla espressamente di «prodotti ordinari», «poco confacenti agli stomaci delicati»; e non è una questione di preparazione, le frattaglie sono roba di scarsa qualità «comunque le si cucini e le si condisca».

Sembra quasi che ci voglia dire che in un libro come il suo, qualche ricetta sulle frattaglie non poteva mancare, ma se fosse dipeso da lui di certo non ne avrebbe parlato. E in ogni caso, ne sconsiglia il consumo. Ancora una volta, il boom economico degli anni Cinquanta e Sessanta si incaricherà di risolvere la questione e di togliere gli italiani dall’imbarazzo di dover ancora consumare cibi che ricordavano loro la recente povertà, come le frattaglie, appunto.

Ma non disperiamoci, dopo un lungo oblio, negli ultimi dieci-quindici anni questi tipi di carne sono tornati in auge, così il panino con la milza (pani câ meusa) è diventato quasi un simbolo di Palermo, o il lampredotto, che era praticamente scomparso, è tornato a invadere le vie di Firenze. Insomma, quando si è ricchi è molto chic far finta di essere poveri, è il contrario che non si riesce mai a fare.

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