L’Italia porta in Arabia Saudita la propria Supercoppa proprio mentre la strategia aggressiva di Riad per diventare l’hub del calcio mondiale pare subire qualche contraccolpo. Il primo è stato lo slittamento al 2034 dell’assegnazione dei Mondiali, quando i sauditi avevano inizialmente puntato tutto sul 2030.

Il secondo arriva da alcuni calciatori che vorrebbero lasciare la Saudi Pro League e tornare a giocare in Europa; pentiti prima ancora di iniziare, verrebbe da dire. Se aggiungiamo anche i no di Messi, Busquets, Modric, Vardy e Morata, il triangolo si chiude perfettamente.

Niente di scandaloso. Il calcio-industria del Terzo millennio ha sempre inseguito i soldi, un atteggiamento che sta portando a un rimescolamento totale, tra nuove competizioni e nuovi paesi che reclamano la ribalta internazionale. Ma comincia a manifestarsi un’insoddisfazione dal basso, laddove le federazioni internazionali vacillano di fronte ai nuovi diritti di cui gli stessi calciatori sono sempre più portatori sani, incapaci di restare al passo con i tempi, a difesa unicamente del business che, in quanto tale, non deve essere disturbato da libere manifestazioni del pensiero.

Il no dei turchi

È saltata così la sfida della Supercoppa turca tra Galatasaray e Fenerbahce, in programma a Riad lo scorso 29 dicembre. Un moto di ribellione, un incidente diplomatico. I giocatori sarebbero voluti scendere in campo con maglie speciali, la scritta del nome di Ataturk e uno striscione con le sue parole, «Pace a casa, pace nel mondo», mentre sugli spalti sarebbe stata posta una sua gigantografia per celebrare il centenario della nascita della repubblica.

Le autorità saudite hanno dovuto smentire la versione secondo cui non avrebbero dato il permesso di suonare l’inno turco, di certo avrebbero voluto controllare le maglie dei calciatori nel tunnel. Non se ne parla proprio. Loro, i calciatori, hanno capeggiato l’insurrezione. Hanno rinunciato ai soldi tenendo il punto, toccando con mano che l’Arabia Saudita offre soldi per ospitare spettacoli calcistici, ma in cambio pretende la rinuncia a una serie di libertà. Come era accaduto per il Mondiale in Qatar.

Il no dei turchi è stato pesante e pensante. Dovrebbe far riflettere chi pensa solo a vendere all’estero il proprio spettacolo calcistico. Cinque anni fa, Giovanni Malagò replicò stizzito alle polemiche sulla Supercoppa italiana in Arabia Saudita, apostrofandole come il «trionfo dell’ipocrisia». Questa è la quarta edizione che si gioca tra Gedda e Riad, dopo le tre di Pechino, le due di Doha, quella di Shanghai e altre due negli Stati Uniti. Sempre per lo stesso motivo: i soldi.

La voce italiana del no è quella di Maurizio Sarri, allenatore della Lazio, più volte contrario a iniziative fuori dalla tradizione: «Questo è tutto tranne che sport. Prendi i soldi e scappa. Prendiamo tutto quello che si può prendere in maniera miope. Andiamo a elemosinare soldi in giro per il mondo.

Con tutti i problemi che ci sono nei calendari, si fa una Supercoppa a quattro. Se il calcio moderno è in questo tipo di evoluzione, sono contento di essere vecchio. La Supercoppa è un trofeo che serve all’allenatore per dire che ha vinto qualcosa, non alla società per crescere. Mi piacerebbe vincere qualcosa che serva anche al club. Detto questo, facciamo 6mila chilometri e daremo il massimo».

Giovedì si comincia con Napoli-Fiorentina, venerdì Inter-Lazio, chi vince giocherà la finale lunedì 22. I nerazzurri sono i grandi favoriti di questa mini competizione, sia per la rosa a disposizione sia per lo stato di forma. La Fiorentina di Italiano potrebbe giocare il ruolo di underdog. La Lazio sta risalendo la classifica, il Napoli è alla ricerca di un trofeo che salvi la stagione.

Il pentito

Alla lista di chi comincia a dir di no all’Arabia Saudita e ai suoi soldi si è iscritto Jordan Henderson, centrocampista inglese dell’Al-Ettifaq Club. L’ex Liverpool aveva accettato l’offerta saudita rinnegando il ruolo di difensore dei diritti Lgbtq+, ma ora pare disposto a tutto pur di tornare in Europa. Le voci su un suo approdo alla Juventus sono insistenti. Se lo farà, perderà tanti soldi, non solo quelli dell’ingaggio, ma pure quelli della tassazione.

Henderson guadagna poco meno di 850mila euro a settimana, e un suo eventuale rientro in Inghilterra subirebbe un’imposta sul reddito pari al 47 per cento, mentre adesso è al 20 per cento. La Spagna, in questo senso, sarebbe la scelta migliore, visto che il regime fiscale di Madrid permette ai giocatori stranieri di non veder tassato il proprio reddito sul territorio.

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