Un’altra, ancora. Mercoledì 13 agosto a La Spezia Tiziana Vinci, 54 anni, madre di sei figli, è stata uccisa a coltellate dall’ex marito mentre lavorava in una villa. L’uomo era sottoposto a divieto di avvicinamento con braccialetto elettronico ma il dispositivo, guasto da giorni, non ha segnalato nulla. Eppure la manutenzione aveva già evidenziato il problema. Ma nessuna corsa contro il tempo, nessun allarme utile, nessuna pattuglia in emergenza. È la fotografia nitida di una protezione promessa e non garantita.

Non è un’eccezione. Tra 2024 e 2025 la cronaca registra femminicidi in cui il braccialetto era applicato all’assassino (o appena disposto) ma non ha impedito l’omicidio.

Civitavecchia: l’ex compagno di Camelia Ion portava la cavigliera; problemi di collegamento e la vittima senza il terminale d’allerta. San Severo: per Celeste Rita Palmieri il giudice ordinò l’applicazione ma il dispositivo rimase inattivo nella finestra di attesa; lui le sparò. Ancona: per Concetta Marruocco l’ex marito aveva la tag «probabilmente scarica»; allarme tardivo. Torino: nel caso Roua Nabi, doppio kit aggressore+vittima ma batterie scariche o allarmi non presi in carico. La tecnologia e organizzazione non reggono l’urto e le donne muoiono.

ritardi e finestre di vulnerabilità

Intanto i numeri corrono. A fine 2024 i braccialetti attivi erano 10.458 (4.677 anti-stalking). La spinta arriva dalla legge 168/2023, che ha esteso l’uso con “distanza minima”. Ma la catena logistica resta inadatta: contratto nazionale a fornitore unico (Fastweb, dal 28 dicembre 2022), durata 45 mesi, fino a 1.000 attivazioni/mese (+20 per cento opzionale), canone unitario 139 euro. Sulla carta è standardizzato, ma sul campo restano ritardi, liste d’attesa e finestre di vulnerabilità tra il provvedimento del giudice e l’operatività effettiva.

Il tallone d’Achille è la gestione degli allarmi. Per i casi di violenza il sistema è “duale”: cavigliera all’autore e device alla vittima. Ma tutto dipende da batterie, GPS e rete mobile. Senza ridondanze bastano una zona d’ombra, una batteria scarica o una perdita di segnale per generare silenzi o falsi positivi. In alcuni reparti si contano centinaia, talvolta migliaia di segnalazioni al giorno su poche centinaia di dispositivi: un rumore che rende più difficile distinguere i casi davvero critici e decide il tempo di risposta.

Ma la catena si spezza anche prima della prima vibrazione. Le tempistiche di attivazione, formalmente ridotte, restano spesso incompatibili con il rischio: tra l’ordinanza e l’installazione si apre una zona franca in cui la “distanza” è solo una riga sulla carta. Quando la tag c’è, ma non funziona, l’effetto è peggiore: un’illusione di protezione che abbassa la guardia delle vittime e deresponsabilizza lo stato. L’omicidio di San Severo a pochi giorni dall’ordine del giudice fotografa proprio quel vuoto.

Il diritto, intanto, non compensa l’assenza di infrastruttura. La Consulta ha confermato legittimità e “distanza minima”; la Cassazione ha vietato automatismi verso misure più afflittive se il braccialetto non è disponibile. Garanzie necessarie, certo, ma resta la domanda: chi protegge la vittima quando il dispositivo manca o è inaffidabile? Oggi la risposta è disomogenea, affidata a protocolli locali e al caso.

Il confronto europeo

Altrove le buone pratiche ci sono già. In Spagna i braccialetti sono integrati nel sistema VioGén: centrali specializzate h24 filtrano, classificano il rischio, chiamano l’autore della violazione e poi attivano pattuglie prioritarie. In Francia i BAR (bracelet anti-rapprochement) lavorano con linee di teleassistenza: meno falsi, risposte più rapide. Non esistono sistemi infallibili, ma esistono standard nazionali. L’Italia ha numeri in crescita senza quel cuscinetto: più allarmi grezzi, stesse risorse sul territorio.

Ma la politica oscilla tra promesse e scarico di responsabilità. Dopo la sequenza di femminicidi tra il 2024 e il 2025, il Viminale ha riconosciuto «criticità di connessione» e chiesto modifiche tecniche al fornitore. Il ministro della Giustizia, Carlo Nordio, ha ricordato che il braccialetto «non è una panacea», arrivando addirittura a indicare luoghi di rifugio temporanei come chiese e farmacie.

Resta il dato operativo: più dispositivi non significano più sicurezza se la filiera non regge. Il time-to-harm nei delitti con arma bianca è brevissimo; senza triage centralizzato e pattuglie dedicate i minuti si perdono nel traffico delle segnalazioni. Le centrali territoriali, sommerse dai falsi, finiscono per sottovalutare ciò che invece conta. L’appalto a fornitore unico inoltre concentra responsabilità e vulnerabilità: un collo di bottiglia che nessuno ha commissariato con audit indipendenti e sanzioni puntuali.

Ora il femminicidio a La Spezia obbliga a tirare la riga. Le associazioni lo ripetono da tempo: servono una centrale nazionale di triage con operatori specializzati h24; servono standard operativi unici per classificare gli allarmi e priorizzare gli interventi; servono tempi certi di attivazione dopo i provvedimenti dei giudici; servono ridondanze tecnologiche multi-operatore e indoor dove il GPS non prende.

Senza questa architettura, il braccialetto resta un paravento. E a La Spezia il vento lo ha attraversato.

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