Una sentenza del tribunale amministrativo regionale del Lazio ha bocciato il ministero dell’Interno e accolto il ricorso presentato da un collaboratore di giustizia, difeso dall’avvocata Adriana Fiormonti. Un pronunciamento che entra nel merito di una questione che riguarda la capitalizzazione, in pratica i soldi che alla fine del programma di protezione ogni pentito può ricevere per rifarsi una vita, il cosiddetto «reinserimento sociale». 

Sembra materia contabile, riguardante il vil denaro, e invece rappresenta un grimaldello per colpire la legge sui pentiti disincentivando la collaborazione e condizionando anche le scelte future di boss o gregari in procinto di scegliere l’accordo con le istituzioni.

Bisogna partire da un dato certo: lo stato non redime e neanche condona, ma stringe un patto con i malavitosi: informazioni e verità utili alle indagini in cambio di protezione, sconti e benefici anche economici. Un patto che trova compimento nella legge sui pentiti introdotta per contrastare i poteri criminali mafiosi nel lontano 1991.

«Non è un problema di equità, ma di politica criminale. I collaboratori servono per sconfiggere le organizzazioni mafiose e i traffici internazionali di stupefacenti. Da qualche mese il ministero sta inviando questo tipo di richieste e in alcuni casi sono state anche accettate, ma è una tendenza che rischia di disincentivare la collaborazione. Con l'accoglimento del mio ricorso si può bloccare questo andazzo», dice Fiormonti.

In pratica il pronunciamento ora può rappresentare un riferimento anche per altri collaboratori che in questi mesi hanno accettato, loro malgrado, queste disposizioni.

Il caso

Ma cosa aveva stabilito il ministero, in particolare la commissione centrale che si occupa di collaboratori di giustizia e testimoni? La delibera contestata riguarda un ex boss, difeso dall’avvocata Fiormonti, per il quale è stata disposta la fine del programma speciale di protezione e su questo il ricorso non è stato accolto.

La decisione riguarda anche un altro aspetto che potrebbe avere conseguenze imprevedibili sulla scelta di collaborare con la giustizia. La delibera subordina l’erogazione del beneficio della capitalizzazione, i soldi per rifarsi una vita, con la stipula di «un accordo con l’agenzia dell’Entrate per la rateizzazione del debito, nonché all’intestazione personale dell’immobile al collaboratore per finalità di garanzia dei debiti tributari».

In pratica il pentito dovrebbe intestarsi l’immobile che intende acquistare con i soldi della capitalizzazione in modo da non eludere la garanzia dei creditori. Il ricorso dell’avvocata si è incentrato sull’assenza di una norma che consenta al ministero dell’Interno di distrarre le somme concesse al collaboratore in favore dell’Agenzia delle entrate o di obbligarlo a intestarsi l’immobile per offrire una garanzia all’ente di riscossione.

Proprio questo motivo di ricorso è stato accolto dai giudizi amministrativi dopo l’iniziale diniego e l’obbligo di nuovo pronunciamento disposto dal consiglio di Stato. Il tribunale inizia dal quadro debitorio del collaboratore che inizia nel 2004 e cresce in seguito all’accumulazione di titoli di spese processuali, multe, interessi. Prosegue ribadendo che la capitalizzazione è un beneficio che la commissione può riconoscere allo scopo di favorire «il reinserimento sociale, economico e lavorativo delle persone che sono sottoposte al programma speciale di protezione».

Avendo queste caratteristiche si può procedere alla revoca in caso di fatti o comportamenti incompatibili con “la nuova vita”, quando il progetto è difforme da quello autorizzato, in pratica è collegato unicamente all’obiettivo del reinserimento. Quindi, conclude il tribunale, «l’amministrazione non può condizionare l’erogazione del beneficio alla previa stipula, da parte del collaboratore, di un accordo con l’Agenzia delle entrate per la restituzione rateale del debito o all’intestazione personale del bene immobile con finalità di garanzia, trattandosi di finalità non previste dalla normativa vigente».

In pratica non c’è alcuna legge che prevede quanto stabilito dalla delibera. Le motivazioni poste dal provvedimento impugnato a fondamento del mancato riconoscimento della capitalizzazione sono «illegittime in quanto non coerenti con il quadro normativo vigente», si legge nel pronunciamento.

Uno stop alla pretesa del ministero di sottoporre la capitalizzazione al quadro debitorio dei collaboratori, uno stop anche al tentativo di picconare la legge sui pentiti, da sempre obiettivo delle destre. 

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