La ministra della Giustizia Marta Cartabia ha riferito nell’aula della camera dei Deputati sul pestaggio di stato compiuto a Santa Maria Capua Vetere, il 6 aprile 2020. A distanza di oltre due settimane dall’esecuzione delle misure cautelari, disposte dal giudice Sergio Enea, l’ex presidente della Corte costituzionale ha relazionato su quella che è stata definita un’orribile mattanza.

La ministra ha condannato le violenze e nuovamente, come già fatto durante la visita al carcere Francesco Uccella, annunciato «linee di intervento per agire sulle cause profonde che hanno permesso - o quantomeno non hanno impedito - fatti così gravi». Linee di intervento che continuano a presentarsi come insufficienti rispetto a quanto emerso, ma è quando accenna alle responsabilità del dipartimento dell’amministrazione penitenziaria che la ministra si infila in una palese contraddizione. 

Il dipartimento assolto

Cartabia guadagna il primo applauso quando cita la carta costituzionale, oltraggiata dal pestaggio di stato. «Le violenze e le umiliazioni inflitte ai detenuti a Santa Maria Capua Vetere recano una ferita gravissima alla dignità della persona. La dignità della persona è la pietra angolare della nostra convivenza civile, come chiede la Costituzione, nata da una storia, dalla storia di un popolo che ha conosciuto il disprezzo del valore della persona. Per questo, la Costituzione si pone a scudo e a difesa di tutti, specie di chi si trova in posizione di maggiore vulnerabilità». Poi accenna a una mancanza da parte del dap, il dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. È l’unica critica indirizzata ai funzionari e ai vertici.

«L'amministrazione penitenziaria deve saper indagare al suo interno, deve saper controllare ciò che avviene dietro quelle mura che, spesso, sfugge all'attenzione di tutti e i fatti di Santa Maria Capua Vetere, emersi solo a seguito degli atti dell'autorità giudiziaria, denotano che, forse, in questo caso, quella capacità di indagine interna è mancata».

La ministra non affonda e si contraddice, accenna a una incapacità di indagine interna da parte del dipartimento, ma assolve i funzionari sulla base di un assunto mendace. Non è vero che i fatti di Santa Maria sono emersi a seguito degli atti dell’autorità giudiziaria, erano noti a questo giornale e rivelati alla pubblica opinione nei mesi di settembre e ottobre.

Non solo. Erano stati denunciati dai garanti per i diritti dei detenuti. Erano noti ai pochi deputati che avevano in parlamento sollevato il caso, ottenendo come risposta, il 16 ottobre 2020 dal ministero, all’epoca guidato da Alfonso Bonafede, la definizione di quella perquisizione straordinaria come un atto di «ripristino della legalità».

L’amministrazione penitenziaria ha sottovalutato quegli elementi diffusi dalla stampa, da associazioni e garanti ritenendo la descrizione dettagliata dei pestaggi inverosimile e credendo alla catena di comando, a partire dalla versione del provveditore regionale Antonio Fullone, che aveva disposto la perquisizione e avallato quella spedizione punitiva.

Pubblica era l’indagine a carico di Fullone, pubblici i nomi dei 57 agenti indagati per tortura, pubblici e dettagliatamente descritti i colpi inferti ai detenuti e a un recluso in carrozzella. La ministra richiama la giustificazione fornita da vertici del dipartimento che non avrebbero agito per la mancata comunicazione da parte della procura di Santa Maria Capua Vetere di riscontri alle notizie diffuse. In tre occasioni il Dap ha chiesto alla locale procura informazioni che non ha ottenuto, per ragioni di riservatezza delle indagini, ma alcuni fatti erano noti e facilmente riscontrabili. A uno fa riferimento anche la ministra Cartabia citando gli atti della magistratura sammaritana.

«La perquisizione straordinaria del 6 aprile è stata disposta al di fuori dei casi consentiti dalla legge senza alcun provvedimento del direttore del carcere, unico titolare del relativo potere», dice la ministra. Ma non ci voleva l’ordinanza cautelare, bastava una telefonata. Domani aveva scritto il 2 ottobre 2020 che la perquisizione, in assenza della direttora del carcere, era stata disposta dal provveditore regionale Antonio Fullone, il quale aveva anche inviato il personale protagonista del pestaggio. Perché il dipartimento non chiesto spiegazioni a Fullone e, confermata la circostanza, trasferito il provveditore? È una delle 13 domande che Domani ha posto alla ministra senza ottenere alcuna risposta.

Cartabia ha dedicato parte del suo intervento anche alle linee di intervento indicando tre direttrici che non comprendono il codice identificativo per gli agenti. «I mali del carcere, perché non si ripetano più episodi di violenza, richiedono una strategia che operi a più livelli, a mio parere, almeno tre: strutture materiali, personale e formazione», dice Cartabia. Livelli, certamente, di primaria importanza, ma il personale che ha organizzato il pestaggio era composto da comandanti di reparto esperti che non avevano alcuna carenza formativa.

I detenuti non si sono fatti male perché erano troppi e neanche perché erano in un carcere senza acqua potabile. Si sono fatti male perché pestati in un’orribile mattanza per la quale in 75 sono stati sospesi mentre altri agenti indagati sono ancora in servizio anche nel carcere delle violenze. 

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