I lavoratori delle catene di approvvigionamento globali restano esposti alla violazione dei diritti umani. Anche in Europa, dove i prodotti del loro sfruttamento potranno continuare a essere venduti senza l’obbligo per le multinazionali di intervenire per evitarlo. E questo nonostante almeno la metà delle più grandi aziende di estrazione e abbigliamento al mondo facciano poco o nulla per proteggere i lavoratori impiegati nel loro intero ciclo produttivo.

Dopo vari rinvii, questa settimana i governi europei avrebbero dovuto trovare un’intesa per approvare la direttiva comune sulla due diligence aziendale, ma il voto contrario della Svezia e l’astensione in blocco di almeno 14 paesi europei (Italia compresa) ha fatto mancare la maggioranza qualificata necessaria per votare. Così la presidenza belga del Consiglio dell’Unione europea ha rimandato il voto e la Corporate Sustainability Due Diligence dovrà essere rinegoziata.

Per Hannah Storey, consulente per le politiche su imprese e diritti umani di Amnesty International «il mancato appoggio del Consiglio dell’Ue a una nuova legge vitale sulla catena di approvvigionamento è una vergognosa battuta d’arresto per i diritti umani».

La normativa avrebbe obbligato le aziende di ogni settore con più di 500 dipendenti e un fatturato netto superiore a 150 milioni di euro a verificare la tutela dei lavoratori e della sostenibilità ambientale all’interno di tutta la propria catena del valore, dall’estrazione delle materie prime alle forniture, fino alla distribuzione del prodotto finale.

Secondo il documento, le aziende che non impediscono le violazioni dei diritti umani e che non adeguano il proprio modello di business all’accordo di Parigi sui cambiamenti climatici devono assumersene la responsabilità civile. Tra le sanzioni previste, il ritiro dal mercato dei prodotti e multe pari ad almeno il 5% del fatturato netto globale delle aziende coinvolte. Le imprese straniere che non rispettano le regole rischiano poi l’esclusione dagli appalti pubblici europei e il blocco delle esportazioni verso l’Europa.

L’accordo sul testo era stato raggiunto a dicembre da Parlamento, Commissione e Consiglio europei, ma la minaccia di una sua bocciatura in sede di voto da parte di alcuni Stati membri è rimasta costante. Anche questa volta, i rappresentanti di Italia, Germania, Francia, Bulgaria, Slovacchia, Ungheria, Lussemburgo, Estonia, Finlandia, Lituania, Repubblica Ceca, Malta e Austria hanno scelto di boicottarne l’approvazione.

Il ministro della Giustizia tedesco Marco Buschmann, il cui governo è tra i principali oppositori della direttiva, ha scritto su X che «c’erano troppe ragioni oggettive contro l’attuale proposta: troppa burocrazia, troppi nuovi rischi di responsabilità, requisiti di due diligence ingestibili – e troppo pochi benefici chiaramente visibili».

DIRITTI UMANI AL PALO

Eppure l’ultimo Corporate Human Rights Benchmark rivela che, su 112 big companies globali analizzate, il 55 per cento non ha fornito alcuna prova di identificazione o mitigazione dei rischi e degli abusi legati ai diritti umani nelle proprie catene di approvvigionamento e produzione. Nonostante il 77 per cento delle aziende esaminate nel report del 2023 dica di impegnarsi a rispettare i diritti umani, quelle che dimostrano di mettere in pratica le proprie policy pubbliche, per esempio fornendo una formazione mirata ai dirigenti e ai lavoratori, sono solo il 27 per cento.

Nel settore dell’estrazione fanno peggio ArcelorMittal, Gazprom e Lukoil, valutate con punteggi che vanno dal 3 allo 0 sui 25 punti totali assegnati dalla World Benchmarking Alliance in relazione a come le aziende monitorano e garantiscono i diritti umani nelle proprie attività quotidiane. Gli stessi scarsi risultati sono condivisi nel settore dell’abbigliamento da marchi come Nike (3,1 punti), Foot Locker (0,9) e Shein (0,9). In quello dell’alta moda da LVMH Moet Hennessy - Louis Vuitton (5,5), la holding multinazionale francese specializzata in beni di lusso, Ferragamo (1,4) e Prada (0,5), tra gli altri.

Nella maggior parte dei casi, secondo il report, si tratta di aziende che non richiedono ai propri fornitori di rispettare il diritto dei lavoratori alla libertà di associazione e di contrattazione collettiva né di vietare intimidazioni, ritorsioni, molestie e violenze nei confronti di membri e rappresentanti dei sindacati.

Soprattutto nelle aziende di abbigliamento, i problemi riguardano anche la povertà delle retribuzioni e lo sfruttamento: solo sette aziende di abbigliamento stabiliscono un salario di sussistenza nei contratti con i fornitori che permetta ai lavoratori di far fronte alle spese quotidiane necessarie alla sopravvivenza. Meno della metà, inoltre, proibisce l’imposizione di commissioni di reclutamento ai lavoratori nella propria catena di fornitura o chiede ai fornitori di pagare i lavoratori regolarmente, puntualmente e per intero.

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