In Italia le destre di governo sono in piena campagna elettorale per le europee. Giorgia Meloni e Matteo Salvini fanno anche vertici per coordinarsi su toni e argomenti: la Lega urla di più, e così via. In Europa invece, senza urlarlo affatto ma anzi col favore del silenzio, il governo Meloni sabota attivamente i diritti dei lavoratori e le già acerbe ambizioni sociali dell’Unione europea. Due casi eclatanti e recenti: la direttiva che riguarda le tutele per i lavoratori delle piattaforme (per esempio i rider), e quella per la sostenibilità sociale e ambientale dell’attività di impresa (la Directive on Corporate Sustainability Due Diligence).

«La retorica di governo è quella della sovranità e della nazione, ma poi alla prova dei fatti l’esecutivo meloniano fa gli interessi dei grandi soggetti privati sovranazionali», dice a Domani Andrea Orlando, che da ministro del Lavoro aveva «fatto asse con Spagna, Belgio e Germania per garantire diritti ai lavoratori delle piattaforme europei, per poi assistere alla brusca frenata del governo Meloni». A proposito di assi, anche il tipo di alleanze che si innesca con l’èra Meloni è sorprendente: mentre su dossier cruciali per l’Italia come la riforma del patto di stabilità il governo Meloni è rimasto ai margini rispetto a Francia e Germania, il sabotaggio di direttive come le due in questione costituisce un assist a quelle stesse forze di governo che poi non ricambiano le gentilezze.

L’ostruzionismo sui rider faceva seguito a quello di Emmanuel Macron, e la repentina virata contro la due diligence rappresenta un grande favore al partito liberale tedesco (Fdp); val la pena ricordare che proprio Christian Lindner, che è il leader liberista e pro austerity di questo partito, è stato anche il principale sabotatore degli interessi italiani durante il negoziato sulla riforma del patto. Dalle parti di Giancarlo Giorgetti, il ministro dell’Economia che ha la competenza quando si tratta di negoziare la direttiva per imprese sostenibili, assicurano peraltro che lo stop italiano è stato concertato con la presidenza del Consiglio. Come a dire: che non se ne chieda conto solo alla Lega, perché su questo dossier è implicata la premier stessa.

Irresponsabilità d’impresa

«I lavori su questo dossier erano in corso da anni». Marion Lupin fa parte della squadra di European Coalition for Corporate Justice, una coalizione di centinaia di organizzazioni non governative, sindacati, accademia, società civile, uniti dal comune obiettivo di «bilanciare la spinta al profitto delle aziende con gli interessi della società in generale, con diritti umani, sociali e ambientali». E questo sarebbe anche l’obiettivo dell’iniziativa sulla corporate due diligence lanciata dalla Commissione europea ad aprile 2020: far sì che le aziende che vogliano avere accesso al mercato europeo si facciano anche carico di verificare il loro impatto su persone e ambiente lungo tutta la catena di valore, subappalti e sussidiarie inclusi.

Nella primavera 2021 l’Europarlamento aveva anche spinto al rialzo: le corporation devono vigilare attivamente che i diritti siano rispettati e risponderne in tribunale con tanto di sanzioni qualora ciò non accada. E in tutto questo, i governi? Lupin ricostruisce che «c’era stato un primo accordo interistituzionale a dicembre, la Germania era sempre stata a favore, e stando alle nostre fonti l’Italia stessa lo era fino a giovedì scorso». Poi cos’è accaduto? «Pochi giorni fa il partito liberale tedesco – che è in campagna per le europee ma stando ai sondaggi rischia di non superare neppure la soglia di sbarramento – ha annunciato che avrebbe tentato il sabotaggio della direttiva», dice Lupin.

Così fanno i liberisti dell’Fdp: lo hanno fatto su dossier climatici, poi Lindner da ministro delle Finanze lo ha fatto sul patto di stabilità; in questo caso e con le elezioni imminenti, i liberali (e liberisti) hanno pensato al loro primo parterre di riferimento: le imprese; e al resto della coalizione hanno detto che se una forza non è d’accordo, allora che ci si astenga. Poi il ministro della Giustizia tedesco, Marco Buschmann di Fdp, è intervenuto con tanto di lettera spiegando perché l’accordo sulla direttiva andava fermato. «Ma se non si fosse repentinamente mostrata recalcitrante anche l’Italia, l’operazione non sarebbe riuscita», dice Lupin.

«L’astensione combinata di Germania e Italia, con Austria e Finlandia nella minoranza di blocco, ha fatto sì che il dossier finisse rinviato a venerdì; e se non si trova una sintesi, il dossier salta a dopo le elezioni».

Liberismo sfrenato

La versione giorgettiana è che – d’accordo con Meloni – si è voluto «tutelare le aziende italiane». La European Coalition for Corporate Justice segnala che anche fra le imprese ve ne sono di illuminate, a favore della direttiva, «come Ferrero; ma pare Confindustria sia contraria». E se c’è una cosa su cui Meloni è da sempre esplicita, è che «lo stato non deve disturbare» chi produce. Le conferme della vocazione neoliberista meloniana si affollano: la scorsa settimana Meloni ha integrato nei conservatori l’estrema destra liberista francese di Reconquête e questa settimana ha accolto a braccia aperte l’iperliberista presidente argentino Javier Milei.

Il 22 dicembre, a dispetto dell’accordo che era stato trovato prima, l’Italia di Meloni si era anche accodata a Emmanuel Macron e ad altri governi per bloccare la direttiva per i diritti dei lavoratori delle piattaforme; la scorsa settimana una sintesi è stata infine trovata (annacquata). Orlando, che da ministro dem nel governo Draghi spingeva per la direttiva, segnala che «un primo segnale c’era stato già con il decreto lavoro, quando il governo Meloni ha ristretto la possibilità per lavoratori e sindacati di accedere all’algoritmo, che io invece avevo introdotto. Poi c’è stata la virata sulla direttiva, che mostra una subalternità al capitalismo, anche digitale, già evidente nelle esibizioni con Elon Musk». Per l’ex ministro, e oggi deputato, «Meloni è questo: autoritarismo e liberismo».

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