Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci delle motivazioni della sentenza di secondo grado del processo sulla trattativa stato-mafia.


[...] Il vero problema è che una trattativa può essere, e lo è stato nel caso di specie, una sorta di telaio nel quale si tessono e si ricamano le trame più disparate, originate da soggetti che a vario titolo vi intervengono, perseguendo ciascuno i propri interessi e un proprio disegno.

Con la conseguenza che, nel dare corso al proprio intervento, ciascuno degli attori in campo disegna traiettorie che a volte convergono con quelle degli altri, a volte si intersecano solo per alcuni tratti; altre volte, invece, si sviluppano asintoticamente le une alle altre.

Allora, il punto che rileva ai fini del presente giudizio - e della verità processuale cui si può approdare con tutti limiti sopra richiamati cui può aggiungersi quello di un accertamento giudiziale che si addentra in vicende di rilievo storico e che rimandano anche a dinamiche e strategie di natura politica - sta nel verificare se, nella trattativa che si è accertato essere avvenuta, anzitutto, tra il Rosdiretto da Mario Mori e Vito Ciancimino, ovvero tra le sue pieghe e in alcune fasi del suo svolgimento, e poi nei successivi sviluppi cui essa diede luogo, non si annidino condotte penalmente rilevanti.

È chiaro che se si ritenesse che il fatto che Ufficiali di polizia giudiziaria ed alti ufficiali dell’Arma dei carabinieri o esponenti di istituzioni dello Stato abbiano avuto contatti con esponenti mafiosi per trovare un accordo al fine di porre fine alla violenza stragista, sia per ciò stesso un atto di “intelligenza con il nemico” o di induzione a un cedimento dello Stato a intollerabili pretese di natura estorsiva, sarebbe difficile negare l’intrinseca illiceità penale di una trattativa così concepita.

In realtà, la trattativa è un contenitore nel quale possono innestarsi le condotte più disparate; e per stabilire se ve ne siano di penalmente rilevanti, occorre accertare chi tratti e con clii; e con quali finalità, e quale ne sia l’oggetto; e le circostanze e le modalità che ne connotano genesi e svolgimento.

Contattare dei mafiosi per averne un aiuto ad attuare un disegno preordinato può assumere connotati completamente diversi, a seconda delle finalità che si perseguono ma anche dei costi che si è disposti a sopportare e dei mezzi impiegati per realizzarlo.

Non si può pensare che a soggetti vicini od organici alle consorterie mafiose possa venire una collaborazione spontanea e disinteressata; e quindi sollecitare un accordo, quando non tradisca una sostanziale collusione da parte di infedeli servitori dello stato - ma non è questo il caso di specie - implica pur sempre la disponibilità a offrire qualcosa in cambio. E in questo senso è vero che non vi può essere trattativa senza uno scambio di favori o di vantaggi reciproci.

Ed è altrettanto vero che se lo scambio consiste nella rinunzia anche parziale all’esercizio dei poteri repressivi dello Stato a vantaggio di un’organizzazione criminale che in cambio desista dal proposito di continuare a commettere delitti, stragi, attentati, seminando morte e terrore nella collettività, allora sembra difficile sfuggire alla conclusione che uno scambio in questi termini altro non sia che propiziare, da parte degli esponenti istituzionali in ipotesi fautori dell’accordo, un vero e proprio cedimento dello Stato a pretese estorsive di inaudita violenza e tracotanza, e comunque un adoperarsi per influenzare le scelte del governo in senso conforme alle aspettative e pretese dei mafiosi.

Le finalità della “trattativa”

In realtà, anche in questi termini, più consentanei alla prospettazione accusatoria per ciò che concerne la ritenuta rilevanza penale, e in chiave concorsuale, della condotta dei carabinieri, non è irrilevante stabilire se le finalità ultime siano state quelle di arrestare l’escalation di violenza mafiosa, foriera di ulteriori spargimenti di sangue dopo le due terribili stragi che avevano funestato l’estate del ‘92, o, principalmente, di salvare la vita a singoli esponenti politici, condannati a morte dal “tribunale” di Cosa nostra o probabile bersaglio della sua furia ritorsiva, e con i quali intercorrevano relazioni di interesse e non solo conoscenze e contatti occasionati dai rispettivi impegni istituzionali.

E soprattutto, ma su questo già la sentenza di primo grado ha posto un punto fermo, deve essere chiaro che compete(va) alla politica, o meglio alle istituzioni di governo della Repubblica, di stabilire se accettare o no di venire a patti anche con le più scellerate organizzazioni criminali, se ciò potesse servire a salvare vite umane e arrestare un’ondata di violenza destabilizzante per l’intero Paese e per la tenuta delle stesse Istituzioni (purché, chiosa il giudice di prime cure, tutto avvenga entro il perimetro della legalità e del rispetto delle leggi e delle norme vigenti).

La scelta, per contro, della linea della fermezza è un’opzione che può pure ritenersi condivisibile o auspicabile o doverosa anche in situazioni estreme, ma resta un atto di discrezionalità politica come lo sarebbe l’opzione contraria, favorevole a trovare un accordo (con la controparte mafiosa).

E una scelta tra le due opposte opzioni è un atto insindacabile, comunque sottratto a qualsiasi sindacato giudiziale, se posto in essere nell’esercizio di quella discrezionalità e con la conseguente assunzione di responsabilità politica.

Non compete però ad altri, e tanto meno a organi di polizia giudiziaria, sia pure per le medesime e commendevoli finalità, adoperarsi per condizionare, orientare, influenzare con proprie iniziative scelte che sono di esclusiva competenza della politica e delle autorità di Governo.

Sotto questo profilo, un’iniziativa tutta protesa a favorire l’opzione di trattare per venire a patti con i vertici mafiosi per giungere ad uno scambio fatto di reciproche concessioni e rinunce (ove fosse provato che le cose andarono così), sarebbe invece sindacabile e censurabile perché posto in essere in assoluto contrasto con e in spregio ai propri doveri istituzionali che impongono, ad un ufficiale dell’Arma e tanto più se organo di polizia giudiziaria, in primo luogo di combattere senza tregua e senza ambiguità un’organizzazione criminale che minacciava la sicurezza dell’intera collettività nazionale e pretendeva di intimidire e mettere sotto ricatto lo Stato; e, in secondo luogo, di rimettersi alle determinazioni dell’Autorità politica senza proporsi di orientarne e influenzarne in alcun modo le scelte (ragioni per le quali, come si vedrà, se una simile prospettazione fosse provata di punto di fatto, e ne fosse certa altresì la rilevanza penale ex art. 338 c.p., non potrebbe riconoscersi a beneficio dei tre ex ufficiali del Ros la sussistenza della scriminante o dell’esimente dell’avere agito in stato di necessità).

Ma proprio per gli eventuali profili di rilevanza penale, non è così scontato che sia del tutto indifferente che i carabinieri abbiano agito perché collusi con la mafia - ciò che la sentenza esclude categoricamente e mai l’accusa l’ha sostenuto – o su sollecitazione esterna per tutelare l’incolumità di singoli esponenti politici –  ciò che la sentenza impugnata assume come verosimilmente accaduto, senza però farne un presupposto indispensabile per poter giungere all’affermazione della penale responsabilità dei tre ex ufficiali del Ros – o che invece abbiano agito avendo di mira esclusivamente l’obbiettivo di fermare le stragi.

Obiettivo: fermare le stragi

In altri termini, pur dovendosi escludersi la possibilità di ravvisare l’esimente dello stato di necessità, resta comunque opinabile che sia declinabile nei riguardi dei medesimi ufficiali il dolo di minaccia se la loro iniziativa, che nella prospettazione accusatoria fatta propria dal giudice di prime cure avrebbe prodotto l’effetto acclarato di rafforzare nei vertici mafiosi il proposito di perpetuare un vero e proprio ricatto allo Stato, fu intrapresa esclusivamente al fine di arrestare la spirale della violenza mafiosa e quindi prevenire nuove stragi e nuovi spargimenti di sangue.

Mancherebbe, invero, in radice, e si anticipa qui una delle conclusioni cui questa Corte è pervenuta, il dolo di minaccia, e più esattamente il dolo di concorso nella minaccia a Corpo politico dello stato, perché i carabinieri non vollero (rafforzare) la minaccia mafiosa allo Stato, come mezzo per strappare al governo concessioni favorevoli agli interessi mafiosi, ma, a tutto concedere, avrebbero voluto semmai tali concessioni come male e come mezzo necessario per sventare una minaccia in atto. E quindi mancherebbe una convergenza e comunione di intenti tra concorrenti e autori del reato di minaccia.

Sarà poi esaminata (e respinta) l’obiezione che dal punto di vista accusatorio si può muovere a tale conclusione sotto il profilo che i carabinieri, pur volendo propiziare concessioni a Cosa nostra al solo fine di evitare ulteriori spargimenti di sangue, nella convinzione che quelle concessioni fossero necessarie o utili per indurre Cosa nostra a desistere dalla strategia stragista, essi avrebbero comunque voluto l’effetto di convertire una minaccia cieca e indiscriminata in minaccia qualificata e mirata all’accoglimento di specifiche richieste, e l’avrebbero poi corroborata con il loro comportamento successivo, in quanto mezzo necessario per strappare concessioni che altrimenti il governo, senza la pressione di una minaccia cogente, seria e temibile, non avrebbe accettato di fare.

Ma si vedrà come l’intera problematica della sussistenza del dolo di minaccia deve essere ripensata a partire dalla messa a fuoco dei contorni e dei connotati salienti dell’iniziativa intrapresa dai carabinieri del Ros attraverso i contatti instaurati con Vito Ciancimino in quell’infuocata estate del ‘92; poiché per sceverarne le reali finalità, occorre attenersi allo svolgimento dei fatti come accertati e nei limiti in cui è stato possibile accettarli.

E si dovrà allora constatare che una valutazione d’insieme delle risultanze acquisite conduce ad asseverare con altro grado di credibilità razionale l’ipotesi che quella ideata ed orchestrata da Mori, con l’iniziale avallo di Subranni, e l’apporto fattivo di De Donno, non fu una mera iniziativa di polizia giudiziaria, ancorché spregiudicata, ma un’operazione molto più complessa e ambiziosa, come comprovato dai contatti intrapresi da Mori e De Donno con esponenti di vertice delle Istituzioni in una fase ancora embrionale ditale iniziativa per assicurarsi la “copertura” politica che avrebbe potuto rendersi necessaria in base ai suoi sviluppi.

E comunque fu un’operazione più di intelligence che non di polizia, e con l’obbiettivo in effetti di disinnescare la minaccia stragista incuneandosi con proposte e iniziative fortemente divisive all’interno di spaccature già esistenti in Cosa Nostra e persino all’interno dello schieramento egemone (quello dei corleonesi).

Ma detto questo, neppure si può accedere alla ricostruzione fattuale sposata dal giudice di prime cure secondo cui i Carabinieri agirono su input di esponenti politici e comunque con l’intento di favorire un dialogo con gli stessi vertici mafiosi che erano responsabili e fautori dello stragismo per giungere con quegli stessi vertici ad un accordo di pacificazione.

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