A sei mesi dalla Dana che, lo scorso 29 ottobre, ha colpito la regione di Valencia, l’emergenza è tutt’altro che finita. E l’autorganizzazione, soprattutto in questa fase, si sta rivelando vitale
Tutto Domani in un solo abbonamento. Approfondimenti, inchieste, analisi e opinioni autorevoli a poco più di 1,50 € a settimana. Abbonati ora per un anno.
Solo qualche settimana fa la commissaria europea per la Gestione delle crisi, Hadja Lahbib, invitava tutti a preparare il proprio kit di sopravvivenza in caso di guerre o disastri naturali. Ma nessuno meglio di chi continua a lavorare nei territori alluvionati ha idea di cosa significhi sopravvivere aa un disastro.
A sei mesi dalla Dana (Depresión Aislada en Niveles Altos) che il 29 ottobre scorso ha colpito la regione di Valencia, l’emergenza non è finita. Perché, dopo l’urgenza immediata della catastrofe, c’è l’emergenza lenta, meno spettacolare e mediatizzata, della quotidianità di migliaia di persone che dal fango non sono ancora del tutto uscite.
Il disastro ha cause molteplici, globali e locali. Il riscaldamento globale è senz’altro all’origine della Dana, ed è previsto che fenomeni simili si abbatteranno con sempre maggiore intensità nel sud Europa. Peraltro, tra le ipotesi prese inizialmente in considerazione per spiegare il blackout che in questi giorni ha colpito la Spagna, c’è anche quella legata a una forte variazione atmosferica indotta da fenomeni climatici che, sebbene al momento sia stata esclusa, resta un fattore di rischio da tenere in conto.
Quel che è certo è che – come stabilito dal Climate Risk Index – la Spagna, insieme a Italia, Grecia e Portogallo, rientra tra i primi dieci paesi al mondo per numero di eventi climatici estremi.
Cause globali e questioni locali
Tuttavia, le cause globali si intrecciano alle questioni locali che aumentano la vulnerabilità di alcuni territori agli effetti del cambiamento climatico. Dario Riccobono, della Xarxa di Suport Mutu Dana, spiega come «il boom edilizio abbia giocato un ruolo chiave nella cementificazione e impermeabilizzazione di aree precedentemente agricole».
Non è un caso che a essere state più colpite siano le zone a ovest di Valencia – come Alfafar e Paiporta – interessate negli ultimi decenni da una massiccia opera di urbanizzazione in aree inondabili, come conferma lo studio condotto da Dataista incrociando i dati del catasto e di Copernicus EMS.
A questo si somma la gestione politica dell’emergenza, come sottolinea Toni Valera, tra i fondatori della Koordinadora de Kolectivos che dagli anni Ottanta lavora per rispondere in modo comunitario ai bisogni del quartiere popolare di Parke Alcosa, nel comune di Alfafar, per lo più a composizione migrante: «Il ritardo con cui è stato dato l’allarme dimostra le conseguenze di un negazionismo climatico che ha portato il governo regionale del Partido popular, sostenuto da Vox, a sottostimare il rischio e cancellare l’unità di crisi istituita per la gestione coordinata di eventi simili, sostenendo che fosse un covo di rossi». Una gestione che ha causato 230 morti e circa 120mila sfollati.
Nelle 72 ore dopo la Dana, quando nei territori sommersi da acqua e fango non vi era nemmeno l’ombra delle istituzioni, sono state le relazioni di mutualismo a salvare le persone.
Per settimane, centinaia di realtà solidali si sono messe all’opera organizzando migliaia di volontari per spalare fango, ripristinare strade, fornire assistenza a persone anziane o con disabilità, e cucinando e distribuendo cibo di qualità a chiunque ne avesse bisogno, come raccontano il Centro Social Terra di Valencia e la Xarxa de Casales y Ateneus de Pais Catalans.
«Quando la responsabile dei servizi sociali è scesa in strada e ha visto gli accessi bloccati da cumuli di macchine e fango è tornata indietro, i solidali sono saltati tra le macchine pur di arrivare a prestare soccorso», racconta Amparo Bolinches Aznar, abitante di Parke Alcosa e attiva nella Koordinadora. «Sta qui la differenza tra la comunità e le istituzioni».
Razzismo e cambiamento climatico
In questa circostanza, il nesso tra razzismo e cambiamento climatico è emerso limpidamente. Come racconta ancora Dario, ci sono «lavoratori migranti delle campagne con lavori stagionali, irregolari, che spesso dormono in ruderi e in capannoni abbandonati. Di loro non si è saputo nulla, sono come invisibili, scompaiono dalla mappa».
Secondo Silvana del movimento Regularización Ya! «la Dana ha fatto venire a galla il razzismo istituzionale e il sistema di privilegi su cui si fonda lo stato spagnolo». Infatti, «durante le prime settimane, il profiling razziale nei confronti di latinoamericani e persone di origine africana era quotidian»”. Amparo racconta con stupore come «le forze dell’ordine venute da tutta la Spagna per dare una mano, andavano a chiedere i documenti a persone di colore e a deportarli nei Cie (Centros de Internamiento de Extranjeros)».
Malattie e disagio sociale
A sei mesi dalla Dana, il territorio si trova oggi a dover affrontare gli effetti di medio e lungo termine della catastrofe. Mentre i tour operator rassicurano sul fatto che la città-vetrina sia rimasta intoccata dall’alluvione, i territori che sono stati sommersi portano ancora i segni. Una sottile patina marrone di fango ricopre ancora le strade di interi comuni. Le scuole sono crollate per l’umidità accumulata. I primi piani di tutti gli edifici abitativi si sono trasformati in cantieri. Impianti di deumidificazione vengono tenuti accesi 24 ore su 24 per asciugare le pareti ancora bagnate.
Tutto questo si traduce nella vita quotidiana della comunità. Uno dei problemi che viene posto è quello della disgregazione giovanile, data dalla ricollocazione – per via del crollo delle scuole – degli studenti in tanti comuni, ma anche dalla devastazione del Centro Niños e del Centro Jòvenes organizzati dalla Koordinadora, che fornivano uno spazio di aggregazione sociale.
Ma non è il solo. Come racconta Ana Martìnez, altra attivista della Koordinadora, «stanno emergendo malattie respiratorie, infezioni cutanee, problemi di salute mentale. Stiamo cercando di dare una risposta comunitaria per affrontare questo dolore collettivo». Inoltre, la questione dell’accesso ai beni di prima necessità resta cruciale in quartieri popolari a basso reddito che hanno perso tutto.
Autorganizzazione
Per rispondere all’emergenza lunga della Dana, l’autorganizzazione si è rivelata vitale. Il Supermercado Popular, nato a Parke Alcosa nei primissimi giorni seguenti all’alluvione, ha proseguito la propria attività attraverso una pratica di autogestione comunitaria che invita gli abitanti non solo a rifornirsi dei beni di prima necessità, dai materassi ai pannolini, ma anche a prendere parte alla sua cura e organizzazione.
Per rispondere ai bisogni comunitari sono nati anche un emporio, una re-ciclofficina per sostenere chi ha perso i propri mezzi durante l’alluvione, e uno sportello per la salute psicologica impegnato nell’elaborazione del trauma collettivo.
La Unidad Movil si occupa di affiancare le persone migranti nelle questioni amministrative e, in particolare, nel processo di regolarizzazione straordinaria previsto a seguito della Dana, sebbene – come sostiene Jonny dell’Unidad – si tratta di una «logica meritocratica, paternalista e coloniale, che consiste nel riconoscere diritti al migrante buono che è venuto a dare una mano».
Oggi, la prospettiva è quella di lavorare per una ricostruzione «ecologica che venga dalla gente e dai loro bisogni. Non vogliamo tornare alla normalità di prima» dice Juanmi del Comité Local de Emergencia y Reconstrucción di Alfafar, uno dei tanti comitati nati negli ultimi mesi nei comuni alluvionati.
I timori sulla ricostruzione
Il timore, fondato, è che la ricostruzione diventi un nuovo business controllato dal Partido popular che favorisca interessi illeciti. Infatti, come riporta elDiario, il governo valenciano ha già assegnato contratti per circa 62 milioni di euro ad aziende implicate in casi di corruzione.
Per questo ogni 29 del mese, i comitati di familiari delle vittime, degli alluvionati e le tante realtà solidali del territorio – dai comitati di quartiere ai sindacati – tornano in strada con due principali richieste. La prima sono le immediate dimissioni di Carlos Mazòn, governatore della regione Valenciana, ritenuto incompatibile con qualsiasi progetto di ricostruzione. La seconda, invece, riguarda la democratizzazione del processo di ricostruzione che, come dice un partecipante del Comitè Local di Paiporta, «non riguarda solo le infrastrutture ma il tipo di società e relazioni che vogliamo».
I vari gruppi impegnati nel territorio condividono la necessità di costruire una alternativa nel quotidiano, fuori dalla costante rincorsa delle emergenze. Per questo, tra le tante attività, stanno portando avanti un progetto di narrativa comunitaria che rinforzi i legami all’interno dei territori afectados e che possa fungere da collante tra le generazioni. Perché in fondo, come dice Dario, la Dana lo ha dimostrato chiaramente: «Il kit di sopravvivenza sono le comunità».
© Riproduzione riservata



