«Pericoloso», «bastardi». Così il nuovo commissario all’emergenza migranti scelto dalla presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, e dal ministro dell’Interno, Matteo Piantedosi, definiva quelli che in terra di mafia rappresentavano lo stato e rischiavano la vita in strada per contrastare Cosa nostra. E quando la magistratura gli ha chiesto conto delle sue dichiarazioni ha infilato una sfilza di non ricordo.

Per Valerio Valenti, va detto subito, non c’è niente di penalmente rilevante, ma i suoi rapporti con potenti e berlusconiani aprono una questione di opportunità politica. Erano gli anni, 2001-2006, nei quali Valenti spiccava il volo sotto l’ala protettiva dell’allora sottosegretario, Antonio D’Alì, il politico colluso perché al servizio dei Messina Denaro. Domani può rivelare i contenuti degli atti allegati al fascicolo della sorveglianza speciale emessa a carico dell’ex senatore forzista.

Prima dell’arresto di Matteo Messina Denaro, stragista e latitante per 30 anni, nella provincia di Trapani c’era chi gli dava la caccia arrestando i favoreggiatori del figlioccio di Totò Riina, ma anche tutelando le aziende confiscate nei lavori pubblici contro quelle piegate ai voleri dei malacarne di zona.

Ma non c’era solo questo stato, un altro colludeva con la famiglia Messina Denaro e metteva a disposizione ruolo e funzione per gli interessi di Cosa nostra. Da una parte c’erano il superpoliziotto, Giuseppe Linares, il prefetto, Fulvio Sodano e dall’altra Antonino D’Alì.

In quegli anni Valerio Valenti era il braccio destro di D’Alì, era schierato con lui e, come abbiamo già raccontato, al telefono si preoccupava del trasferimento ai servizi segreti richiesto dal poliziotto “compare”, Emiliano Carena. Con Carena conversava anche di altro, del trasferimento di Giuseppe Linares, inviso al suo dante causa, il sottosegretario D’Alì, poi condannato a sei anni di carcere per concorso esterno in associazione mafiosa.

«Al senatore gli ho detto “ora lei va dal capo...mi raccomando non gli chiedere... il trasferimento di cosa”, gli ho detto: “Non fare questo errore perché ti metti sotto scopa”». In pratica Valenti, intercettato, riferisce il suggerimento dato a D’Alì: all’incontro con Gianni De Gennaro (il capo della polizia che non asseconderà la richiesta, ndr) vanno usate cautele maggiori, di informarsi su Linares ma di non dire esplicitamente di trasferirlo.

I bastardi

Ma c’è altro che possiamo rivelare. In un’altra conversazione con Carena, sempre del 2004, Valenti arrivava a dire: «Questo Linares… minchia, ed è veramente pericoloso…». Carena rispondeva: «Ma il capo non lo ha spostato a questo?…», Valenti replicava: «No… no… no… purtroppo… minchia, è agguantato fortissimo».

Le coperture di Linares erano i magistrati e il capo della polizia che lo hanno sempre difeso per il lavoro svolto nel contrasto al crimine organizzato. Valenti, invece, bisbigliava i suoi giudizi offensivi sul conto dell’allora capo della mobile di Trapani.

In un’altra conversazione i due commentano l’arresto di un colletto bianco e Valenti spiega: «Sì… lui… quello che hanno arrestato a San Vito… minchia compare l’hanno forzata… (...) domani mattina viene la commissione antimafia…(...) così hanno fatto vedere che lì lavorano…».

Secondo Valenti l’arresto era un segnale per la commissione parlamentare antimafia che sarebbe arrivata in città. Così introduceva la sua sprezzante disamina dell’accaduto: «Ah… lo sai, hanno arrestato a coso… minchia che sono bastardi…ah…».

«Bastardi», così bollava gli uffici inquirenti, riportano negli atti gli investigatori.

I non ricordo di Valenti

Il braccio destro di D’Alì viene anche sentito dagli inquirenti, ma infila una serie di non ricordo. Incredibile a dirsi per un uomo delle istituzioni.

Il 16 luglio 2015, il sostituto procuratore generale, Domenico Gozzo, oggi magistrato della direzione nazionale antimafia, ascoltava come persona informata sui fatti l’attuale commissario alla “finta” emergenza migranti.

Il magistrato stava proseguendo le indagini su Antonino D’Alì, processo che avrà un’altalena di pronunciamenti fino al giudizio definitivo e alla condanna a sei di carcere. Negli atti c’è il verbale di assunzione d’informazioni di Valenti.

«Ho ricevuto la richiesta del sottosegretario di lavorare nella sua segreteria. Il D’Alì mi disse che gli avevano parlato molto bene di me. Io accettai anche perché questo mi consentiva un avanzamento in carriera, cosa che poi in effetti arrivò», esordiva così Valenti. In effetti, nel 2001, veniva nominato viceprefetto e, nel 2006, al tramonto del governo Berlusconi, con D’Alì sottosegretario, diventava capo di gabinetto della prefettura di Firenze.

A questo punto veniva chiesto a Valenti un suo eventuale ricordo in merito al trasferimento da Trapani dell’allora capo della mobile, Linares, e Valenti risponde: «Non ricordo».

Così gli viene data lettura di un’intercettazione, quella nella quale Carena e Valenti parlavano del trasferimento. Ma niente, al prefetto non tornava la memoria. «Continuo a non ricordare nulla circa questo trasferimento. Lei mi legge altre conversazioni da cui risulta che definivo Linares pericoloso. In realtà non ho mai avuto rapporti con il Linares, se non uno casuale, e non stimavo particolarmente i suoi metodi di lavoro».

Valenti continuava sostenendo di non essersi mai occupato di quel trasferimento e che, se D’Alì gli avesse chiesto un consiglio, gli avrebbe detto che sarebbe stato un errore chiederne il trasferimento.

Il magistrato, a questo punto, gli leggeva l’intercettazione nella quale Valenti diceva che il trasferimento di Linares non era andato a buon fine perché «ammanigliato». Il prefetto, oggi commissario, chiariva così la sua posizione: «Ritengo si trattasse di un modo di dire, anzi una semplice battuta, su eventuali contatti con persone importanti del Linares», concludeva Valenti. Il prefetto che dava dei bastardi agli inquirenti, giudicava pericoloso il poliziotto antimafia, braccio destro del senatore sottosegretario D’Alì, ha fatto carriera.

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