Mentre negli Stati Uniti aumentano i passi indietro, in Europa e in Italia possiamo aspettarci lo stesso effetto domino? La presidente di Diversity porta l’inclusione fuori dalle vetrine e dentro le aziende, dove contano le scelte reali: «L’Europa ha gli anticorpi, ma servono coerenza e strutture solide»
Questa intervista fa parte di Resistenze, la newsletter di Domani sui diritti e le identità negate: iscriviti qui
In Italia, quando si parla di “inclusione”, si fa spesso con voce rotta dall’emozione o urlata dal palco. Francesca Vecchioni no. Lei preferisce il piano inclinato dei numeri, delle strutture, dei documenti aziendali. Una noia, penseranno in molti. Ma è lì, tra le policy e le strategie HR, che si decide se un’azienda apre le porte ai talenti – tutti – o se si limita a farsi fotografare con la bandiera giusta nel mese giusto.
Figlia d’arte (ma allergica alla rendita), è fondatrice e presidente di Diversity, fondazione che non si accontenta di “sensibilizzare” ma entra nei meccanismi concreti del lavoro e della comunicazione: formazione, monitoraggio, consulenza, advocacy, e poi ricerca. Tanta. Con lei collaborano brand, università, enti pubblici. Perché l’inclusione, dice Vecchioni, «non è buonismo. È innovazione, benessere organizzativo, competitività».
L’abbiamo incontrata in un momento tutt’altro che neutro. Negli Stati Uniti di Donald Trump – patria autoproclamata della libertà - il clima si è fatto tossico: sponsor che si ritirano dal Pride, governi che sconsigliano ai propri cittadini Lgbtq+ di volare in America e il tycoon che promette ritorsioni contro chi si «piega al politicamente corretto».
Cosa succede quando l’inclusione diventa un rischio d’immagine? E in Europa, e in Italia, possiamo aspettarci lo stesso effetto domino? Vecchioni osserva, misura e risponde con precisione chirurgica. «L’Europa ha anticorpi forti», dice. «Abbiamo una Costituzione - e una compliance normativa - che rende difficile tornare davvero indietro».
Ma non è solo questione di leggi. È questione di costruzione culturale. Ci sono aziende che, in questi anni, hanno lavorato sul serio: strutturato percorsi, reso inclusivi i processi interni, coinvolto persone competenti. E quelle aziende, oggi, non possono permettersi di “non essere più inclusive”: non solo per etica, ma per coerenza e per business. Per chi, invece, ha solo fatto vetrina, l’effetto Trump può essere un alibi. Un’occasione per smarcarsi, abbassare i toni, sfilarsi senza troppi danni. «Ma chi lo ha fatto per finta — avverte Vecchioni — si smaschera da solo. Le persone non sono più ingenue. Sono stanche. E sanno distinguere».
Oggi Francesca Vecchioni è considerata una delle principali esperte italiane di linguaggi, comunicazione, hate speech e diritti umani. È anche una delle poche a portare questi temi dentro alle redazioni e ai consigli di amministrazione, con una visione intersezionale che non si ferma a Lgbtq+, ma include anche etnia, disabilità, corpi, storie. Non si limita a fare “rappresentanza”. Fa analisi. E dove può, interviene.
Non la vedrete spesso in tv, a parte qualche rara intervista. E forse va bene così. Perché, in fondo, è più utile a porte chiuse che sotto i riflettori. Mentre molti si chiedono se l’inclusione sia una moda, lei ha già risposto: «Chi lo pensa, sbaglia. Le persone non spariscono dalla faccia della terra solo perché è cambiato il vento».
Il WorldPride di Washington si svolge in un clima complicato: diversi sponsor si sono ritirati per timore di ritorsioni politiche, alcuni paesi hanno sconsigliato ai propri cittadini Lgbtq+ di viaggiare negli Usa e parte della comunità denuncia un’erosione del sostegno istituzionale. Secondo lei l’Italia rischia un simile scenario? Ha percezione di un calo di sostegno — economico o politico — verso gli eventi Pride e, più in generale, verso i diritti Lgbtq+? C’è il rischio che le aziende italiane comincino ad arretrare, per convenienza o paura?
La percezione non è sempre perfetta. Stiamo risentendo di un rimbalzo di conversazioni su questi temi che arrivano dagli Stati Uniti, con scelte politiche molto precise. L’Europa però, al suo interno, ha anticorpi molto forti. Abbiamo una legislazione e una Costituzione europea che rinnegano totalmente le discriminazioni, anzi remano attivamente nella direzione opposta: verso la tutela dei diritti. È qualcosa che non solo è scritto nelle nostre carte, ma che fa parte dell’identità europea — basti pensare al motto “uniti nella diversità”. Certo, l’Europa contiene anche elementi contraddittori, come l’Ungheria o quello che abbiamo visto in Polonia. Ma proprio per questo si mantiene un fervore, una tensione costante per tenere dritta la barra dei diritti. Pensiamo alle ultime audizioni anche rispetto alla situazione italiana. Dal punto di vista dei brand: con Diversity Lab facciamo percorsi interni nelle aziende, e questo è un momento in cui si smascherano quelle organizzazioni che non sono coerenti, che non hanno mai realmente investito in modo consistente su questi temi. Chi lo ha fatto con serietà, invece, conosce i valori e anche i vantaggi dell’inclusione.
Naturalmente non si parla solo di tematiche Lgbtq+, giusto?
No, questi temi sono intersezionali. Quando fai un lavoro serio sull’inclusione, non lo fai solo per un principio etico, lo fai perché ha senso dal punto di vista dello sviluppo. Aprire il mondo del lavoro alla diversità vuol dire aprirlo ai talenti, all’innovazione. E questi benefici si misurano concretamente. Ci sono vantaggi evidenti: il benessere interno, che migliora; il modo in cui le persone lavorano meglio; la capacità di comunicare con l’esterno in modo più autentico; persino la qualità dei servizi. Se stai scrivendo una serie tv per raggiungere il pubblico, costruire un team che rappresenti davvero la diversità delle persone serve ad arrivare meglio. E questo non toglie nulla alla competenza, anzi.
La polemica c’è, ma va ragionata anche in termini di esperienza, competenza e direi risultati.
Esatto. Vale anche nei prodotti e nei servizi: se sei un’organizzazione che ha costruito nel tempo team realmente eterogenei, e ha iniziato a misurarne il valore, non puoi dire all’improvviso “non siamo più inclusivi”. Chi invece non ha mai veramente compreso i valori dell’inclusione, chi non li ha mai integrati nel proprio modello di business, è più facile che oggi approfitti della situazione per arretrare. Ma questo succede perché non lo aveva mai fatto davvero. È un’occasione per smascherare chi ha sempre usato l’inclusione solo come facciata.
C’è qualcosa dunque che non vediamo dentro queste aziende.
Una cosa sono le dichiarazioni pubbliche, un’altra è ciò che avviene realmente dentro le organizzazioni. Ci sono aziende che hanno costruito processi strutturati, investito su queste leve perché ne riconoscono il valore nella crescita. Alcune dichiarazioni pubbliche di “tregua”, per abbassare i toni in un momento di tensione, non corrispondono a veri cambiamenti strategici. Se prima cercavi attivamente talenti con disabilità, ad esempio, continuerai a farlo. Se la tua strategia HR ha meccanismi per rendere più inclusiva l’organizzazione, quelli restano. Sono costruzioni importanti, che non vengono meno con una dichiarazione pubblica.
Dobbiamo fare attenzione: non tutto ciò che viene detto corrisponde alla realtà.
E poi c’è il tema del Pride. Quello che possiamo verificare, almeno noi, è che esiste una differenza sostanziale tra chi ha costruito negli anni una cultura solida e chi invece non l’ha fatto. In Europa, molti fondano la propria attività sul rispetto delle normative e delle certificazioni europee. La compliance è ancora un punto fermo. Le certificazioni esistono, e con esse la necessità di promuovere la parità di genere. Non sono cose scollegate. Siamo dentro un sistema diverso rispetto a quello statunitense. E in questo senso la compliance europea, le leggi, le strategie strutturate, restano salde.
Come Diversity Lab avete fatto un’analisi recente sulla percezione dell’inclusività da parte del mercato. Cosa è emerso?
È emerso chiaramente che le persone si sono stancate di una certa modalità finta. Sono stanche di narrazioni costruite, non autentiche. Nel Diversity Brand Index, ad esempio, emerge un aumento significativo dell’insofferenza verso le azioni corporate percepite come strumentali. E non si tratta neanche solo di washing. La consapevolezza è aumentata. Se all’inizio c’era più tolleranza, oggi c’è maggiore attenzione. Le persone si chiedono: è coerente? Dicono una cosa e ne fanno un’altra? O fanno davvero qualcosa di concreto? Gli esperti parlano di propose fatigue, di stanchezza selettiva verso ciò che è percepito come incoerente.
Lei, all’inizio, hai parlato di una “conversazione” che arriva dagli Stati Uniti. Quindi non restiamo sulla chiacchiera da bar?
No, c’è sicuramente un impatto. Si tende a trattare queste tematiche come se fossero una moda. Ma il mercato è fatto di persone, e le persone sono tutte diverse. Hanno bisogno di sentirsi incluse nelle conversazioni, nei servizi che le riguardano. Pensiamo alla disabilità: chi crede che siano solo “mode” sbaglia. Sappiamo quanto l’inclusione abbia effetti pratici — ci sono aziende che, cambiando alcuni processi, hanno visto miglioramenti reali. L’Europa, in questo, è consapevole: se non lo fosse, non avrebbe creato strumenti per misurare questi valori, né introdotto criteri vincolanti. Mi preme sottolineare che non si tratta solo di una conversazione culturale. Si tratta della società, del potere d’acquisto, delle scelte quotidiane delle persone. Le persone scelgono un prodotto piuttosto che un altro anche in base a quanto si sentono rappresentate. Se non innovi, dopo un po’ non hai più successo. E questa richiesta di coerenza arriva anche dalle nuove generazioni. Il linguaggio si evolve con la società. E oggi la diversificazione emerge sempre di più. È al centro delle conversazioni. E no: non si può tornare indietro. Le persone non spariscono dalla faccia della terra da un giorno all’altro.
A proposito di questo clima culturale e politico, vorrei chiudere questa conversazione con un passaggio sull’audiovisivo. Sappiamo quanto è importante la rappresentazione. Avete lanciato DiversiFind, un progetto che nasce per facilitare l’incontro tra talenti sottorappresentati e il mondo del cinema. Avete già dati su quanto la rappresentazione - di donne, persone con disabilità, minoranze - manchi oggi in Italia, davanti e dietro la macchina da presa?
Dietro la macchina da presa, tra chi scrive, immagina, dirige un film in Italia, c’è solo una donna su cinque, mentre se parli di persone con disabilità, nei 100 film più famosi solo il 2 per cento contiene personaggi con disabilità, mentre il dato Eurostat della popolazione europea oggi è il 24 per cento. Si capisce che la presenza davanti e dietro la macchina è fondamentale, soprattutto per creare prodotti non stereotipati e che diffondano un immaginario collettivo rispettoso e privo di pregiudizi. Per questo DiversiFind è importante, perché toglie la “scusa” al settore dell’audiovisivo di non trovare le persone giuste, attraverso l’opportunità di innovazione e crescita che serve al mercato e alla società.
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