La parola come carne viva, l’arte come resistenza: l’artista racconta cosa vuol dire esistere - come queer, palestinese, umano - sotto occupazione: «Non sono qui per intrattenervi, sono qui per rompere le illusioni comode. Suggerire che essere queer e il sostegno alla Palestina siano in qualche modo incompatibili non è solo ignorante, è una grottesca perversione della verità»
Questa intervista fa parte di Resistenze, la newsletter di Domani sui diritti e le identità negate. Qui per iscriversi
«Cominciate a disimparare tutto ciò che pensate di sapere». Elias Wakeem parla e ogni cosa si infiamma. Sono parole feroci, assolute, nitide. Retroilluminano l’inferno che non vediamo o fingiamo di non vedere. Ci sono voci che non si possono ignorare, non perché gridano più forte, ma perché scavano più a fondo. 34 anni, artista queer palestinese, nato nella “Palestina del ’48” — quei territori che da quell’anno sono parte di Israele, dove la sua libertà è negata ogni giorno. Non chiede di essere ascoltato: ci mette davanti al dovere di farlo.
In un’intervista che è molto più di un’intervista – è un atto di accusa, una dichiarazione d’amore e un grido di resistenza - Wakeem indica la complicità nascosta dietro il nostro silenzio, l’ipocrisia dei diritti a geometria variabile, il privilegio che si traveste da neutralità. La sua parola è carne viva, è memoria, è performance di verità in un mondo che si affanna a camuffarla.
Racconta cosa vuol dire essere queer in Palestina, sì, ma soprattutto cosa vuol dire essere umano in un tempo che ha smarrito l’umano. «Non sono qui per intrattenervi – dice -, sono qui per rompere le illusioni comode». E allora lasciamoci rompere. È l’unico modo per ricominciare a sentire.
Inizierei questa nostra conversazione chiedendoti di presentarti ai lettori di Resistenze.
Sono Elias Wakeem, un artista, filmmaker, performer ed essere umano queer palestinese, nato sotto occupazione e cresciuto in un sistema che non ha mai voluto che vivessi liberamente, amassi apertamente o parlassi con verità. Uso l’arte come arma, come resistenza e come sopravvivenza. Creo opere che documentano, disturbano e reclamano. Non sono qui per intrattenervi. Sono qui per rompere le illusioni confortevoli che avete costruito mentre noi siamo sepolti sotto le macerie del vostro silenzio.
Sono nato nella Palestina del ’48 - cioè, quella che voi chiamate “Israele” - con un passaporto che non ho mai chiesto, circondato da recinzioni, posti di blocco e coloni che vivono con impunità, mentre la mia famiglia, sia biologica che scelta, guarda membri in Cisgiordania e Gaza venire affamati, torturati e assassinati. Lavoro a livello internazionale come artista performativo ed educatore, eppure ovunque io vada porto con me il peso dell’essere palestinese - dell’essere sorvegliato, interrogato, sospettato e cancellato.
Che spazio trova, in mezzo a tutto questo, il tuo impegno artistico?
Uso l’arte drag come strumento di disobbedienza politica. Il mio alter ego, Madam Tayoush, incarna il glamour come mezzo di resistenza - e no, non una resistenza come i vostri hashtag ripuliti e rassicuranti. Intendo la resistenza come rifiuto dell’annientamento. Intendo la resistenza come una gioia che sputa in faccia al genocidio. La mia queerness non è separata dal mio essere palestinese. Non è una contraddizione. È lo stesso grido di vita in un mondo costruito sulla morte.
Ti metto subito di fronte a una questione brutale ma viva, che agita l’Italia e viene sbandierata spesso contro le persone Lgbt attiviste per la Palestina: se sei una persona queer, non puoi supportare l’esistenza della Palestina, perché le persone queer vengono semplicemente perseguitate nella Striscia di Gaza. Cosa ne pensi?
Francamente, penso che il solo fatto che una domanda del genere esista sia un insulto – a me, a ogni palestinese che ha lottato per sopravvivere alla violenza coloniale e al significato stesso di essere queer. Suggerire che l’essere queer e il sostegno alla Palestina siano in qualche modo incompatibili non è solo ignorante – è una grottesca perversione della verità. È il sintomo di un mondo profondamente malato e indottrinato, che ha imparato ad associare la “libertà” solo alle bandiere coloniali che sventolano sopra i nostri cadaveri.
Ok, ti fermo subito. Cominciamo da qui: questa narrazione – secondo cui i palestinesi, in particolare quelli di Gaza, sarebbero troppo “omofobi” per meritare sostegno.
Non è solo falsa, è deliberatamente e sistematicamente utilizzata come arma di guerra. Si chiama pinkwashing: una strategia propagandistica adottata dallo Stato israeliano per dipingersi come paradiso dei diritti Lgbtq+, mentre copre il suo apartheid, l’occupazione e il genocidio contro i palestinesi. Non è una teoria del complotto - è documentata, discussa in ambito accademico e condannata da collettivi queer palestinesi come alQaws e Aswat. Il pinkwashing è la cancellazione della vita queer palestinese e la celebrazione della violenza nel nome della “tolleranza”. Le persone queer palestinesi esistono. Ci organizziamo, amiamo, creiamo e resistiamo -a Haifa, a Ramallah, a Gaza. Esistiamo da molto prima che il regime israeliano cercasse di rifarsi l’immagine con il Tel Aviv Pride. E resistiamo non solo al patriarcato locale - che, come ovunque, esiste – ma anche alla sorveglianza, ai checkpoint, alle invasioni militari e agli attacchi mirati, perché siamo palestinesi. Vorrei aggiungere un’altra cosa.
Prego.
L’ironia è crudele: Gaza è sotto assedio totale. Bombardata ogni giorno. Mentre scrivo queste parole, oltre 53.000 palestinesi sono stati uccisi a Gaza in poco più di diciotto mesi. La gente è stata ridotta alla fame, intere famiglie cancellate dai registri civili, ospedali rasi al suolo con personale e pazienti all’interno. Il 15 maggio, Hassan Sammour, giornalista della radio Al Aqsa Voice, è stato assassinato. Lo stesso giorno è stato ucciso anche Ahmed Al Helou della Quds News Network. Il 16 aprile, l’artista e fotoreporter Fatima Hassona è stata uccisa insieme alla sua famiglia.
Come osate chiedermi se le persone queer siano perseguitate a Gaza, come se questa fosse la domanda rilevante in un momento di genocidio? Come osa qualcuno parlare di queerness come cartina al tornasole dell’umanità - e applicarla solo quando fa comodo all’impero? Ditemi: le persone trans non vengono forse uccise per strada a Roma? Marielle Franco non è stata forse assassinata in Brasile? Le donne trans nere non vengono forse braccate negli Stati Uniti? È solo a Gaza che le persone queer non sono al sicuro - o è solo lì che scegliete di preoccuparvene, quando serve alla vostra agenda di guerra?
Che tipo di schema contorto e disumano guarda un popolo massacrato e dice: “Beh, ho sentito dire che non sono molto gentili con i queer, quindi forse se lo meritano”? Che tipo di libertà queer è questa? Se la queerness significa qualcosa – se parla davvero di liberazione, di famiglia scelta, di rottura dei sistemi di controllo - allora non può essere cooptata dall’apartheid.
Israele viene visto come uno Stato decisamente Lgbt friendly.
Chiariamolo: Israele non ha mai offerto libertà alle persone queer palestinesi. Ha usato persone queer palestinesi per spiare le proprie comunità. Ci ha ricattati. Ci ha incarcerati. Lo stesso governo che sventola bandiere arcobaleno a Tel Aviv è quello che bombarda ogni palestinese indiscriminatamente. Lo stesso esercito che si dipinge come paladino dei diritti Lgbtq+ è quello che uccide bambini a Rafah e seppellisce giornalisti sotto le macerie.
Vivo nella Palestina del ’48, con un passaporto israeliano che non ho mai chiesto - ottenuto solo perché mio nonno è riuscito a restare sulla sua terra durante la Nakba. Quel passaporto non mi protegge. Vivo sotto minaccia ogni giorno - posso essere perquisito, detenuto, il mio telefono può essere intercettato, i miei movimenti limitati. Parlo la mia lingua madre a bassa voce in pubblico, per paura. Volete parlare di persecuzione queer? Provate a vivere come artista queer palestinese in una terra dove persino la tua lingua è criminalizzata.
In che senso?
Anche solo scrivere queste parole - pubblicamente, su internet - comporta dei rischi. Non sai mai se finiranno nelle mani sbagliate, o quali conseguenze potrebbero seguirne. Non sai se questa sarà l’ultima volta che sentirete parlare di me. Non è dramma - è la realtà quotidiana in cui viviamo. È la paura che portiamo addosso. Eppure parliamo – non perché sia sicuro, ma perché il silenzio è complicità. Perché la nostra sopravvivenza è resistenza. Perché la queerness, se davvero significa qualcosa, deve significare stare dalla parte degli oppressi, non di chi li bombarda in nome della “libertà”.
Questa domanda, “Puoi essere queer e sostenere la Palestina?”, non è solo offensiva. È il riflesso di una bussola morale corrotta. Ci chiede di barattare la nostra solidarietà in cambio del nostro comfort. Di abbandonare un intero popolo perché la loro morte è più facile da sopportare della nostra complicità. Non vi sto chiedendo di prendere posizione - vi sto chiedendo di svegliarvi. Di vedere attraverso la propaganda. Di chiedervi: chi trae beneficio quando la queerness viene usata come giustificazione per un genocidio? Chi guadagna quando la nostra sofferenza viene riconosciuta solo selettivamente?
Se la vostra queerness viene mobilitata solo quando è politicamente conveniente per l’impero, e non quando dei bambini vengono bruciati vivi nelle tende, allora forse non è queerness. Forse è solo codardia travestita da bandiera arcobaleno. Questa non è solo una lotta palestinese. È una lotta per ciò che significa essere umani. E se la queerness non fa parte di questa lotta - una lotta per la vita, per la dignità, per la giustizia - allora a cosa serve?
Puoi dirci come vivono e resistono i movimenti queer palestinesi?
Come viviamo? Viviamo come tutti gli altri in Palestina – sotto assedio, sotto occupazione, sotto minaccia. Ma anche: con orgoglio, con rabbia e con una bellezza inarrestabile. Le persone queer palestinesi non resistono solo all’“omofobia”, come amano ripetere i vostri discorsi occidentali. Resistiamo ai checkpoint. Resistiamo al dominio militare. Resistiamo alla frammentazione delle nostre comunità da parte di un sistema coloniale brutale che vuole cancellarci fisicamente, psicologicamente e spiritualmente.
I movimenti queer in Palestina non sono un lusso. Sono una necessità nata dalla sopravvivenza. Quando sei una persona queer la cui casa può essere demolita in qualsiasi momento, quando il tuo amante è rinchiuso dietro un muro che non puoi attraversare, quando la tua identità di genere è già un bersaglio e la tua nazionalità ti rende sacrificabile, ogni tuo respiro diventa politico. Ogni tuo bacio diventa ribellione.
Gruppi come alQaws e Aswat costruiscono comunità, offrono educazione e si organizzano contro ogni probabilità: sfidando insieme patriarcato, omofobia, pinkwashing e occupazione. E cosa fa il mondo? Li ignora. Li cancella. O peggio strumentalizza la loro lotta per giustificare le bombe che cadono su Gaza.
Come si resiste a tutto questo?
La nostra resistenza non è quella che immaginate. Non è sempre fatta di proteste o comunicati. A volte è tenersi per mano dopo un bombardamento. A volte è caricare un ultimo video prima di essere uccisi. A volte è guardare quei video sui social media, che raggiungono milioni di visualizzazioni, e maledire l’umanità per aver permesso che tutto questo accadesse mentre siamo ancora vivi. È alzare una bandiera quando il tuo migliore amico è sepolto sotto le macerie. A volte è solo sopravvivere abbastanza a lungo da essere visti. E questo è qualcosa che la maggior parte del mondo si rifiuta ancora di fare: vederci come esseri umani completi, complessi, indomiti. Non vittime. Non pedine. Non strumenti per le vostre guerre di propaganda.
In che modo la lotta per i diritti Lgbtq+ è intrecciata con la lotta per una Palestina libera?
Perché non può esistere liberazione queer sotto occupazione. Non c’è libertà in una gabbia, qualunque sia il colore con cui ne dipingi le sbarre. Essere queer in Palestina significa comprendere visceralmente cosa vuol dire essere emarginati, sorvegliati, privati dei propri diritti. Ma non viviamo in due compartimenti separati: “questioni queer” e “lotta nazionale”. Questa è un’illusione occidentale. Un’invenzione coloniale. Siamo un solo popolo che lotta per la dignità e questo include il diritto di amare, di vivere e di esistere senza essere bombardati, interrogati o cancellati.
Gli stessi droni che uccidono i bambini a Gaza sono finanziati da governi che si proclamano alleati delle persone Lgbtq+. La stessa polizia che si addestra in Israele torna a New York, Parigi e Roma per uccidere persone queer e trans nere per strada. Questi sistemi non sono separati, sono intrecciati nel sangue e nel profitto. E no, la liberazione queer non è qualcosa che cade dal cielo quando smettono di cadere le bombe. Cresce dal terreno della libertà. Non puoi piantare diritti Lgbtq+ in una fossa comune e aspettarti che fioriscano. Le persone queer palestinesi non hanno bisogno di essere salvate dagli stati coloniali. Abbiamo bisogno che gli stati coloniali tolgano i loro stivali dal nostro collo.
Non parlarmi di diritti Lgbtq+ mentre sostieni regimi che distruggono intere città. Non sventolare le tue bandiere arcobaleno sulle ceneri delle nostre case. Se la tua idea di liberazione queer ha come prezzo la nostra cancellazione, allora la tua liberazione non è altro che un altro impero travestito.
Tu sei lì in questo momento, da quella striscia di terra puoi dirci cosa sta succedendo?
Quello che sta succedendo a Gaza è un genocidio. Un massacro di massa. Una pulizia etnica. Il colonialismo nella sua forma più cruda e spudorata. Intere famiglie vengono cancellate dal registro civile. Gli ospedali vengono bombardati in diretta. I bambini vengono bruciati vivi. I giornalisti vengono giustiziati mentre indossano giubbotti con la scritta “STAMPA”. I medici operano senza anestesia, amputano arti con coltelli da cucina perché il regime israeliano ha bloccato persino le forniture mediche di base.
Mentre scrivo queste parole, persone stanno morendo. Stanno morendo di fame. Bevono acqua inquinata dalle pozzanghere. Seppelliscono i loro bambini in fosse comuni. Le loro case sono diventate tende, e ora anche quelle tende vengono bombardate. E il mondo? Guarda. Calcola. Razionalizza. Discute. Dice: “Ma Hamas”, mentre guarda morire 10.000 bambini. Dice: “E gli ostaggi?”, mentre intere università vengono rase al suolo. Dice: “È complicato”, mentre il genocidio si svolge in 4K sui loro telefoni. Non è complicato. È crudele. È calcolato. È coloniale.
E lasciate che lo dica forte: non sta succedendo solo a Gaza. Sta succedendo in Cisgiordania. Sta succedendo a Gerusalemme. Sta succedendo all’interno dei confini del ’48, dove vivo io — dove siamo sorvegliati, incarcerati, censurati e violati ogni giorno. È un sistema totale. E ha lo scopo di far scomparire i palestinesi. Ma non scompariremo. Siamo ancora qui. E il sangue sulle vostre mani – sì, tu, che stai leggendo - non si laverà via solo perché dici: “È troppo difficile da capire”.
Come può la comunità italiana sostenere la comunità Lgbtq+ queer palestinese?
Cominciate a disimparare tutto ciò che pensate di sapere. Smettete di ripetere la propaganda coloniale. Smettete di chiedere se siamo omofobi prima di chiedere perché ci stanno bombardando. Smettete di fingere che si tratti di “entrambe le parti”. Non ci sono due parti uguali, c’è un oppressore e un oppresso, un carceriere e un incarcerato, un colonizzatore e un colonizzato. Sosteneteci facendo sentire la vostra voce: forte, costante, senza compromessi. Chiedete al vostro governo di interrompere il commercio di armi con Israele. Spingete per un boicottaggio culturale e accademico totale. Invitate le voci queer palestinesi sulle vostre piattaforme senza costringerci a edulcorare la verità per il vostro comfort.
Non usateci come simboli. Non piangete lacrime arcobaleno mentre votate per governi che forniscono gli F-16. Non condividete la nostra arte e ignorate il nostro sangue. E quando dite di essere con noi, dimostratelo. Non marciate solo quando è di moda. Sosteneteci quando ci censurano, ci calunniano e ci affamano. Sosteneteci quando gli algoritmi ci oscurano. Sosteneteci anche quando non è sicuro — perché per noi non lo è mai stato.
E soprattutto: ascoltate. Ascoltate il nostro dolore. Ascoltate la nostra gioia. Ascoltate la nostra sfida. Perché non siamo un simbolo. Siamo un popolo. E la nostra libertà è il banco di prova della vostra umanità. E in questo momento? State fallendo miseramente, catastroficamente, vergognosamente. La storia ricorderà il vostro silenzio come complicità in una delle ore più buie dell’umanità.
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