Il fatto che in Italia la pandemia abbia portato con sé anche un leggero aumento dei consumi pro capite, chiusi tra le mure domestiche abbiamo evidentemente trovato rifugio nel vino, è dato che non deve trarre in inganno e che anzi va inserito in un contesto più ampio, che vede non solo il nostro paese ormai da decenni bere sempre meno vino ma anche i consumi mondiali ai livelli di circa quindici anni fa, in calo per il terzo anno consecutivo.

Da una parte il mondo del vino è riuscito nel corso degli ultimi due decenni a valorizzare la propria produzione alzando il prezzo medio delle bottiglie vendute nelle enoteche e nei ristoranti, portando così i consumi verso una fascia sempre più premium, a discapito dei vini più economici.

Dall’altra si tratta di economia che ha fatto la propria fortuna grazie a una precisa fascia di mercato, identificabile con la generazione dei baby boomer, quei nati tra la fine della seconda guerra mondiale e il 1964 che per decenni hanno trainato le vendite tanto in Europa quanto negli Stati Uniti, primo mercato mondiale per consumi complessivi di vino.

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La nuova generazione

Un segmento che però sta invecchiando rapidamente, quindi bevendo meno, e il cui entusiasmo nei confronti del vino non è mai stato del tutto rimpiazzato dai cosiddetti Millennial, la generazione cui appartiene chi è nato tra gli anni Ottanta e Novanta.

Se ne è occupato recentemente sul New York Times il critico Eric Asimov, identificando due problematiche. La prima squisitamente economica, essendo il potere di acquisto della Generazione Y meno vivace rispetto a quello della precedente.

La seconda più sociale e culturale, legata alle abitudini e soprattutto alla grande offerta che una persona può trovare oggi nei bar e nei ristoranti di tutto il mondo. Se infatti trenta o quarant’anni fa il vino rappresentava una delle pochissime alternative di qualità a birre industriali a basso costo e a quei cocktail così amati dai propri genitori oggi il panorama non potrebbe essere più diverso: la birra riesce a essere ovunque o quasi sinonimo di creatività grazie al lavoro di innumerevoli stabilimenti artigianali, in tutto il mondo, mentre il bere miscelato vive ormai da qualche anno il suo periodo più brillante grazie a una categoria professionale che sta vivendo una seconda giovinezza, quella dei baristi (o mixologist, per usare un termine forse più centrato).

L’unione di questi due fattori fa sì che oggi sia più economico bere una birra artigianale o un cocktail fatto bene che un bicchiere di vino di qualità, soprattutto nei grandi centri, lontano dai luoghi di produzione.

Valori diversi

Lo ha seguito qualche settimana dopo Janice Williams su The Drop, autorevole testata della piattaforma Pix, con un articolo che approfondisce le gradi differenze di consumo di cui sopra. Se i Millennial hanno un approccio nei confronti del vino lontano da quello dei loro genitori è perché hanno valori diversi: sono più attenti alla salute e all’ambiente, cercano quindi vini con meno alcol, meno calorie e capaci di trasmettere una maggiore idea di trasparenza a proposito del loro procedimento produttivo.

Tutte cose che il mondo del vino più tradizionale non ha ancora fatto proprie. Non è un caso, sottolinea, che chi è nato a cavallo degli anni 90 trascini oggi i consumi di vino naturale e di vino in lattina, a dimostrazione di un consumo meno ambizioso ma non per questo meno consapevole rispetto a quello delle generazioni precedenti.

Negli Stati Uniti, inoltre, se il consumo di vino è in calo quello della birra artigianale, dei cosiddetti drink “pronti da bere” e degli hard seltzer sembra non conoscere crisi, ennesima dimostrazione di un mondo molto diverso rispetto a quello di un paio di decenni fa.

C’è bisogno di un rebranding, concludono entrambi gli autori. Il mondo del vino deve essere cioè in grado di identificarsi anche con questo genere di bevitori, sia in termini di produzione che di comunicazione. Ma non sarà un processo breve, probabilmente neanche indolore.

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