Berkeley è una splendida città universitaria, affacciata sulla Baia di San Francisco nella California del nord. Berkeley è anche uno dei punti centrali della cosiddetta California Food Revolution (parte del titolo di un bellissimo libro di qualche anno fa), scoppiata nella seconda metà degli anni Sessanta del secolo scorso, quando molto altro andava cambiando in varie parti del mondo, non solo i gusti e l’attenzione al mangiare e bere bene, meglio se a chilometro zero. Una città universitaria come Berkeley era (e ancora è) il posto ideale per sperimentare, pure se gli oggetti dell’esperimento sono uno stile nuovo di cucina e di commercio alimentare. Il campus dell’ateneo è luogo di movimento, vivace punto di incontro tra le culture di studenti e professori della più svariata provenienza. Come in tutte le storie che si rispettino, anche in quella del Gourmet Ghetto si celano disaccordi e contrasti sul mito delle origini della definizione. Forse la ha coniata il giornalista Herb Caen, forse l’attore teatrale Darryl Henriques, di certo è stata la scrittrice satirica Alice Kahn a far circolare il marchio Gourmet Ghetto. Dopo cinquant’anni, ancora oggi eleganti cartelli appesi in cima ai pali della luce su Shattack Avenue danno il benvenuto a chi si affaccia in una delle più celebri isole gastronomiche degli Stati Uniti. Serviva qualcosa di estremamente sintetico ed efficace per descrivere quanto era successo a North Berkeley in un isolato soltanto. Cosa era successo?

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Il caffè dell’olandese

Il primo aprile 1966 Alfred Peet aveva aperto il primo Peet’s Coffee & Tea a North Berkeley, angolo tra Walnut e Vine Streets. In origine, Alfred Peet vendeva solo caffè da macinare, chi comprava se lo portava a casa. Peet veniva dall’Olanda, dove il padre gestiva una piccola torrefazione.

Emigrato negli Stati Uniti, Alfred presto si stufò di bere caffè cattivo e decise di promuovere le proprie conoscenze: l’idea era semplice, vendere caffè di qualità. Ebbe successo, tanto che oggi qualcuno lo ricorda come “l’olandese che ha insegnato all’America come si beve il caffè”.

Il collettivo del formaggio

Le insegne con la scritta "Gourmet Ghetto" sono appese lungo Shattuck Avenue vicino a Cedar Street a North Berkeley, in California

L’anno successivo furono Elizabeth Valoma Avedisian e Sahag Avedisian ad aprire il Cheese Board, un negozietto di formaggi situato a pochi passi dal Peet’s. L’idea era di proporre solo formaggi scelti. La qualità paga e il negozio divenne troppo piccolo. Un giorno qualcuno provò a preparare una baguette e da quel tentativo nacque una panetteria, all’interno della formaggeria. E poi, alla porta accanto, una pizzeria. Che ha vinto premi come miglior pizzeria degli States, meritandoli.

I guadagni suggerirono agli Avedisian di coinvolgere nella propria impresa chi lavorava con loro. Fondarono un collettivo, che ancora oggi funziona e nel quale tutti fanno tutto: scelgono, impastano, cucinano, servono, spazzano.

The Cheese Board Collective è un luogo pieno di fascino cui non manca un pizzico di magia: ci sono il formaggio e il pane e di fianco c’è il locale con un solo tipo di pizza al giorno e i gruppi jazz, pochi posti a sedere ma un’intera strada a disposizione, Shattack Avenue. A ora di pranzo e a ora di cena si formano lunghe e ordinate code, ascoltando buona musica aspetti il tuo turno e, quando arriva, vedi dove c’è posto per mangiare.

Alice Waters, il cibo di qualità

Lo chef David Tanis, la proprietaria Alice Waters e il co-chef Beth Wells allo Chez Panisse nel 2011 / Foto AP

Un centinaio di metri a ovest, verso la Baia, Alice Waters e Paul Aratow aprirono il ristorante Chez Panisse nel 1971. L’idea era di vendere cibo di qualità, dal mercato alla tavola. Alice Waters immaginava un posto dove, prima di tutto, i suoi amici potessero passare del tempo assieme, mangiando buon cibo alla francese e bevendo buon vino. Già, perché la passione per la cucina a lei era venuta durante un periodo di studio a Parigi.

Delle tante cose interessanti che si possono raccontare su Alice Waters, una è il suo approccio artistico non solo alla cucina, ma anche alla scelta dei collaboratori. Nel suo bellissimo Coming to My Senses (tradotto in italiano come Con tutti i miei sensi, Slow Food editore) Waters scrive di aver guardato per selezionare il personale non tanto al curriculum, quanto alla capacità di immaginare e sognare.

Molto berkleyesque, termine che ho appreso da chi quei luoghi li vive, però ha funzionato. Molti degli chef passati per Chez Panisse riconoscono ad Alice Waters un talento più unico che raro: quello di inventare deliziosi abbinamenti tra verdure. La qualità paga, e Chez Panisse è stato premiato come miglior ristorante degli Stati Uniti, meritandolo.

Rivoluzioni

La proprietaria di Chez Panisse Alice Waters / Foto AP

I visionari del cibo erano per lo più autodidatti accomunati dalla attitudine imprenditoriale californiana, quella che ti fa pensare: «Provo e vedo come va, se non va magari provo ancora». Erano anni di rivoluzioni, Berkeley con la sua università e tutto quanto vi ruotava attorno si spostava verso il centro del mondo, pronta ad accettare apparenti stranezze per scrivere nuove storie.

Alice Waters racconta che non dimenticherà mai quella sorprendente serata in cui gli allegri compagni del Cheese Board, nudi, irruppero nel suo ristorante dalla porta principale nel mezzo della cena e sfilarono tra i tavoli in un’incarnazione della loro natura anarchica ed estatica.

Accanto ai tre capisaldi, il Gourmet Ghetto è cresciuto e propone botteghe e ristoranti di ogni tipo. Si mangia ottimo giapponese, si fanno buone spese in supermercati attenti alla qualità, per non parlare del mercato contadino del giovedì pomeriggio, si trovano croissant francesi burrosi e hamburger, ovviamente, gourmet. Si beve birra artigianale e certo non manca un’enoteca. E molto altro, servono mesi per riuscire a esplorare tutto.

Ho fatto sopra riferimento a quella che sinteticamente si chiama UC Berkeley per elogiarne la vivacità e l’opportunità di scambi. Ebbene, per chiudere la storia che vi sto raccontando confesso di essere stato fortunato e felice beneficiario di tutto questo, testimone oculare ma soprattutto gustativo.

La fortuna di aver lavorato proprio in quella università per un semestre abbondante sarebbe già sfacciata, ma alla sfacciataggine onestà chiede di aggiungere che abbiamo casualmente (con famiglia) vissuto proprio nel Gourmet Ghetto, sperimentando giorno dopo giorno la scoperta delle pizze, del caffè, delle verdure, dei formaggi, insomma, di tutto quanto contribuisce a costruire la realtà di uno dei quartieri più saporiti del mondo. Ho imparato così, che quando mi capita di andare negli Stati Uniti la prima cosa da comprare è un pacco di Peet’s Coffee: per me, che non ho mai amato la moka, una rivoluzione.

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